

F.I.: Vivi qui (a Essen), pensi qui, ti muovi qui. Hai studiato a Milano. Tra i tuoi scaffali trovo un libro che mi colpisce: “L’impero romano”. Tra i tuoi lavori ci sono studi sulle forme dei resti romani ritrovati nei tuoi viaggi a Pompei ed Ercolano. Immagino che le tue origini influenzino fortemente il tuo modo di vedere e studiare l’architettura: come risponde il “pubblico” estero, visto che adesso vivi in Germania, a queste tue connotazioni? Come arrivi alle persone che osservano e come ti spieghi a parole?
M.C.: Sono attratta dalla storia, da particolari forme architettoniche, e la mia ricerca artistica è fortemente influenzata dalla mia biografia. Mi sono trasferita in Germania nel 2010, appena terminata l’Accademia, e mi muovo molto, soprattutto con residenze d’artista. Dopo aver trovato lo studio in Kunsthaus Essen e dopo una collettiva all’Art Hotel di Sorrento nel 2013, sono nati i primi lavori che analizzavano e riproponevano parallelismi tra forme architettoniche classiche e romane presenti sul territorio italiano e tedesco. Ero interessata ad analizzare un dialogo non solo visivo tra questi due luoghi, forse per riflettere su un concetto di identità comune e identità europea. Nel corso delle ricerche sono venuta a conoscenza del ricco patrimonio romano della Renania Settentrionale-Vestfalia (NRW), dove vivo e lavoro attualmente. La cosa mi ha molto affascinato e ho deciso di focalizzare la ricerca sulle forme visive presenti su entrambi i territori. Ne sono nate diverse serie di lavori su carta e delle installazioni site-specific, che sono state esposte in diversi musei: il Museum Kunstpalast a Düsseldorf, il Lehmbruck Museum a Duisburg e il Junge Museum a Bottrop. La reazione del pubblico tedesco mi ha dato e mi dà molta soddisfazione. Le opere suscitano interesse e propongono importanti processi di riflessione e critica, essenziali per proseguire la mia ricerca artistica.




F.I.: Trovo una continuità tra interno ed esterno, tra quello che c’è sui fogli e quello che c’è sui muri, nella stanza, nello spazio che ti circonda. È come se il tuo lavoro dovesse uscire, sbordare dalla superficie e infilarsi nei luoghi al di fuori. Mi fa venire in mente il neoplasticismo, e lì si tornerebbe di nuovo a parlare all’arte e all’architettura. Da cosa nasce questa ricerca della tridimensionalità? Sperimenti la connessione tra le opere e, per esempio, le pareti del tuo studio: si può quindi dire che il “contenitore” delle tue opere è parte stessa di un’opera?
M.C.: Sì, hai ragione, la tridimensionalità gioca un ruolo importante e negli ultimi lavori direi centrale. Quando ho la possibilità di lavorare site-specific, l’architettura che ospita le opere diviene parte integrante del lavoro. Si può dire che vengo dal disegno: adoro concentrarmi, pensare e perdermi su fogli di carta. Lavoro però in modo interdisciplinare, sperimentando con diversi medium e discipline. Nel 2011, per esempio, avevo trascorso tre mesi nei laboratori artistici di scenografia del Teatro alla Scala di Milano. Probabilmente questa esperienza mi ha offerto uno sguardo allargato sul mio lavoro, che ha iniziato in modo costante a porsi domande anche sulla dimensione spaziale tridimensionale.
Da due anni sto sperimentando strategie artistiche che mi permettano di portare i lavori su carta nello spazio reale. Quello che mi interessa di questa traduzione dalla bidimensionalità nella tridimensionalità è, da una parte, confrontarmi con le geometria del luogo nel quale intervengo e, dall‘altra, coinvolgere in modo più attivo e sensoriale il pubblico.




F.I.: La luce, le pareti del tuo studio, l’ordine che hai deciso - o è capitato - per conservare le tue cose. Raccontaci un po’ come sei arrivata qui e come queste pareti sconosciute siano poi diventate importanti. Quali tappe hai dovuto percorrere? Avevi un obiettivo preciso o ci sono delle deviazioni di percorso gestite nel tempo?
M.C.: Sono arrivata in Germania con una borsa di studio di 6 mesi e non avevo in previsione di rimanerci a lungo. Quello che mi ha tenuto qui ad Essen è stato anche il sostegno da parte di istituzioni culturali e politiche, che mi hanno permesso di continuare a lavorare come artista. Nel 2011 ho avuto la fortuna di vincere un concorso comunale che mi consente di usare uno studio alla Kunsthaus die Essen, dove lavorano altri 15 artisti di diverse discipline, ad un costo di affitto minimo. Ovviamente non è stata questione di mera fortuna; da mesi ero sommersa da bandi e partecipavo a concorsi di ogni genere per trovare uno spazio dove poter lavorare in modo concentrato. Essere selezionata per uno degli studi comunali è stato essenziale per far avanzare la mia ricerca artistica in modo professionale e sperimentale. Uno dei miei obiettivi è sfruttare al massimo questa opportunità.
Vivo lo studio non solo come luogo di sperimentazione e produzione artistica, ma anche come luogo di riflessione. In studio mi pongo domande, cerco risposte, mi metto in discussione, prendo delle decisioni e metto a punto una metodologia di lavoro e ricerca. Uno studio d’artista si potrebbe quasi paragonare ad un laboratorio di ricerca scientifica.






F.I.: Sul tuo tavolo troviamo degli schizzi di Dusseldorf e il porto. Come hai iniziato a lavorare su questo tema? Mi sembra che le rovine architettoniche, da quelle antiche a quelle più recenti o industriali, siano ricorrenti, quasi una tua ossessione, se così possiamo definirla. Sapresti trovare un perché?
M.C.: Rovine architettoniche e forme di architettura contemporanea suscitano in me grande fascino. Sono interessata ad indagare come dialogano queste diverse forme sul palcoscenico urbano. Il porto di Dusseldorf, Medienhafen, è simbolo della Dusseldorf contemporanea (un po‘ come Piazza Gae Aulenti a Milano) ed è noto per i suoi ambiziosi progetti architettonici, come il Neuer Zollhof di Frank Gehry.
La serie "Medienhafen" ha preso luogo quest’anno, e la ricerca sia a livello concettuale che visivo è ancora in work in progress. Il primo lavoro terminato è "Medienhafen - Architecture Walk", attualmente esposto al Stadtmuseum di Dusseldorf, luogo significativo per l’intera seria di lavori che nasceranno sotto questa tematica. L´interesse di analizzare e studiare il dialogo tra storia e contemporaneità al Medienhafen, è nato infatti dopo una visita allo Stadtmuseum. Qui ho scoperto la seria fotografica "Projekt Theinhafen Düsseldorf" (1979-1980) di Tata Ronkholz e Thomas Struth che mi ha colpita sia a livello emozionale che teorico. I due fotografi hanno documentato l’area del porto poco prima dell’intervento di riqualificazione urbana ed architettonica del quartiere, per salvaguardare le forme che sarebbero andate perdute. Interessata alla storia che sottende questa serie fotografica e alle forme visive proposte da Ronkholz e Struth, mi sono posta l’obiettivo di iniziare un’esplorazione del luogo alla ricerca delle forme industriali tipiche degli anni ’70 e, in secondo luogo, di indagare il dialogo tra le forme visive antiche e contemporanee.
«Uno studio d’artista si potrebbe quasi paragonare ad un laboratorio di ricerca scientifica.»
F.I.: Ti va di raccontarci qualcosa della tua ultima residenza d´artista con il KunstVereineRuhr?
M.C.: A ottobre ho vinto un concorso per la Ruhr-Artist-in-Residence del Kunstvereine Ruhr. Era un concorso a tema libero. Bisognava proporre un progetto di ricerca con una meta specifica. Io ho colto l’occasione per ricercare sul Progetto Porta Nuova a Milano che, da lontano, non ero riuscita a seguire nello specifico. La prima serie di lavori su carta, "The New Milan", è stata esposta in Dicembre alla Künstlerhaus di Dortmund. Secondo un approccio simile a "Medienhafen", con "The New Milan" sto approfondendo la presenza di forme contemporanee in una città come Milano, caratterizzata da un patrimonio storico e artistico di grande valore culturale.





