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Interview and studio visit #7

Alberto Gianfreda

Scultura resiliente

Ph. Jessica Soffiati & Francesca Iovene
Ed. Jessica Soffiati

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J.S: Ciao Alberto, sei l’artista di oggi e per lo studio visit ci hai invitate in questo nuovo spazio acquistato da poco, eppure già tanto vissuto e personale. Una volta entrate, oltre al tuo laboratorio, troviamo una piccola mostra, un allestimento che sembra permanente per la cura con la quale i pezzi vivono e si misurano con lo spazio a loro dedicato e per loro scelto.  Come si sceglie uno spazio di lavoro, riflessione e ricerca artistica?

A.G: Ho scelto questo laboratorio perché mi sembrava un affare! Cercavo uno spazio finestrato e fuori terra per caricare e scaricare facilmente i materiali pesanti. Non ho cercato uno spazio con caratteristiche particolari; il tempo vince sullo spazio, abitudine e sedimentazione faranno il luogo almeno fino a quando lo spazio non sarà finito.  

Quello che hai visto attraverso l’obiettivo un mese fa è completamente diverso da quello che è oggi. È tutto nuovo e ogni cosa sta ancora cercando il suo spazio. 

Vi mando un’immagine dello studio un mese dopo!

J.S: Hai detto che “la scultura oggi è tanto contemporanea quanto anacronistica”.
Come si declinano la tua scultura e il “mestiere” dello scultore in questo momento storico? Che cosa conservano del passato e come comunicano col presente?

A.G: La scultura ha spesso un tempo lungo di realizzazione, mentre gli eventi che ci scandiscono il tempo oggi sono rapidissimi. Anche la scultura va misurata con la rapidità del mondo e quando lo si fa mette in crisi. Per me la scultura oscilla tra l’immobilità e il suo essere evento. Trovo interessante l’evento che si ripete ad ogni incontro, alla fine è come se permanesse. Mi attrae l’effimero ma faccio fatica a lavorare sulla precarietà. Permanere fisicamente è certamente solo un livello dell’esserci, ma questo mi sembra già una questione rilevante e attuale. Del passato provo a conservare un atteggiamento: il desiderio della scoperta. 

J.S: Il sistema dell’arte e delle gallerie è solo uno dei molti sistemi, nei quali la scultura può inserirsi e interagire. Come può oggi la scultura entrare quindi in relazione con sistemi diversi dai contesti fisici specifici nei quali si è abituati a pensarla? Pensi che la scultura abbia un ruolo attivo nella vita delle persone? In che misura l’artista può controllare la direzione emozionale e il ruolo educativo di un pezzo?

A.G: Al momento immagino così la scultura:

La scultura è un linguaggio che va declinato in realtà diverse per restare vivo. Non mi spaventa pensare ad una scultura al servizio di diverse realtà, che non significa subordinarla, ma semplicemente calarla in un contesto ogni volta diverso fino a renderla parte attiva dello stesso. Gli ambiti in cui la scultura si può inserire sono molteplici, quelli che fino ad ora ho potuto affrontare, vanno dallo spazio pubblico alla galleria privata, dallo spazio del sacro a quello dell’impresa privata. Più verifico il lavoro in contesti differenti, più mi accorgo che mondi storicamente compenetrati e avvaloranti reciprocamente, oggi divergono al punto da danneggiarsi l’uno con l’altro. Ritengo però che siano comunque tutti ambiti da affrontare parallelamente, per non ridurre anche le sperimentazioni più radicali della scultura a oggetti vuoti che non ci riguardano e giustificati esclusivamente nel contesto tutelativo del sistema dell’arte.

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"Per me la scultura oscilla tra l’immobilità e il suo essere evento. Trovo interessante l’evento che si ripete ad ogni incontro, alla fine è come se permanesse."

J.S: Una piazza è uno spazio collettivo; volendo anche questo studio può essere uno spazio collettivo?

A.G: Se per collettivo intendi uno spazio che ci unisce per un’identità comune neanche una piazza lo è più. Se per collettivo intendiamo relazionale allora probabilmente sì, ma nella relazione non si realizza necessariamente una collettività o comunità. Uno spazio collettivo dovrebbe essere capace di accogliere, nel senso di chiamare verso, di ospitare, nel senso di realizzare l’incontro dove l’ospite è sia chi ospita che l’ospitato e partecipativo, dove chi è accolto ha un ruolo attivo nella realizzazione dello spazio, insomma lo SPAZIO PUBBLICO. Non vedo molte connessioni in questo senso con lo studio privato, se non il potenziale intrinseco alla scultura di lavorare per la collettività. Da qualche anno assieme ad un gruppo interdisciplinare sto mettendo a punto metodi per far partecipare la scultura ai processi di pianificazione urbana in aree pubbliche, per implementare la pianificazione canonica, con la dimensione sensibile ed emozionale che la scultura, usata come sismografo in fase preliminare, può far emergere. Credo che questa strada possa contribuire alla definizione di un vero spazio collettivo.

J.S: Da una tua definizione: “il materiale è la cosa più simile al corpo”. La pressione, la tensione, la colluttazione… sono esperienze che accomunano il materiale al corpo umano. Alcuni dei tuoi lavori comunicano spesso forti contrasti. Usi i materiali più pesanti per produrre forme morbide che sembrano fluttuanti e leggere. Come studi e selezioni i materiali per la “pelle del lavoro”?

A.G: I materiali per me sono stati il punto di partenza della ricerca. Mi sembrava fossero il piano comunicativo più efficace. Riportare tutto ai sensi, all’esperienza, far fare al materiale, o meglio alla materia, l’esperienza che fa il corpo. Il corpo è il luogo originale della sperimentazione. Non ci sono limiti alla sperimentazione anche se il rischio, andando oltre i consueti processi di lavorazione, è quello estremo della non esistenza. Di frequente scelgo i materiali della “tradizione” della scultura come il marmo, oltre alla terracotta, altre volte uso materiali che appartengono alla dimensione artigianale, una volta locale, legni e tessiture pregiate. Più di recente ho usato anche degli oggetti fortemente iconici o immagini ad alta riconoscibilità. Direi che l’elemento che accomuna tutte le scelte è la capacità del frammento di continuare a parlare del tutto. In uno dei testi mitici di Jole De Sanna “Aptico, il senso della scultura”, Nagasawa riporta più o meno queste parole: se un vaso cade da una rupe smette di essere un vaso, se una scultura cade e si rompe continua ad essere una scultura. Questa irriducibilità della scultura mi interessa molto.

"Se un vaso cade da una rupe smette di essere un vaso, se una scultura cade e si rompe continua ad essere una scultura. Questa irriducibilità della scultura mi interessa molto."

J.S: Nei tuoi ultimi lavori stai provando a rendere sempre più dinamica la scultura. In “vaso cinese”, l’immagine iconica del vaso è restituita dai pezzi dell’oggetto frantumato, ricomposti. I pezzi del vaso rotto sono tra loro collegati da anelli metallici e possono muoversi se sollecitati. Qui intervengono due componenti: il suono e l’aspetto finale. Queste due componenti sono in continuo mutamento, ricordano lo stato delle particelle di un atomo. Come distingueresti con due parole l’energia sprigionata da una delle tue terrecotte e quella invece derivante dall’interazione con una scultura mobile?

A.G: Dopo questa domanda dovrei raccontare tutta una nuova fase di ricerca a cui tengo molto sulla capacità di adattamento dell’icona, di cui fa parte anche il “vaso” ma a questo punto, scelgo solo le parole che mi chiedi. Direi icone resilienti per le sculture mobili e per le terrecotte del 2009 forza attiva. Parole che raccontano di relazioni.

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