«Le “cose” che ci circondano ci osservano, si fanno da noi toccare, ci aiutano nel nostro lavoro, ci coprono, ci fanno compagnia, ci permettono di creare cose nuove, ci accompagnano spesso per tutta la vita.»
F.L: Il tuo studio è pieno di volti: appiccicati su una bacheca, sottosopra, smontati, bianchi di gesso o cablati in crani trasparenti. Quanti occhi hai nel tuo studio? Ti senti osservato mentre lavori? Tutti questi esseri ti fanno compagnia? Sono tuoi amici, tuoi nemici, tuoi fantasmi, tuoi figli, niente o tutto di tutto ciò?
A.G: La mia prima mostra di sculture interattive si intitolava “oggetti che osservano”. Ispirata alle teorie di Heinz Von Foerster voleva sottolineare la non semplice oggettività delle cose, ma la loro interdipendenza con l’ambiente e con l’osservatore. La conoscenza è la continua relazione tra questi elementi. Inoltre credo che ogni oggetto possegga un’anima. Le “cose” che ci circondano ci osservano, si fanno da noi toccare, ci aiutano nel nostro lavoro, ci coprono, ci fanno compagnia, ci permettono di creare cose nuove, ci accompagnano spesso per tutta la vita. Noi ci relazioniamo con loro e loro con noi continuamente. E come pensa la cultura tradizionale giapponese, con lo scorrere del tempo si “animano” fino a diventare spiriti. Gli occhi delle sculture sono per infondere questa anima. O forse solo (parafrasando Jean Luc Nancy) perché l’opera ci somiglia, ci ri-chiama, ci ri- guarda.
F.L: La fotografia in cui si vedono i volti impilati, senza bocca, muti, mi cattura per il contrasto con la testa di quel robot che sembra sia sul punto di parlare. Il volto di un bot me lo immagino così. Chi è? È un’opera a se’ stante o è parte di un’opera?
A.G: Pensa che quasi tutti i ritratti che vedi in studio sono robotizzati, interattivi nei movimenti, ma silenti. Gli unici parlanti, che hanno ancora all’interno una voce come tutte le precedenti sculture sonore in plastica e vetro, sono proprio quelle senza bocca. È un’opera a sé stante fatta da porzioni di volto dritte e rovesciate. La gente spesso non percepisce il rovesciamento: ancora una volta è lo scambio di sguardi che conta tra noi e l’oggetto.
F.L: In Affective Robots passato e presente convivono in un’unica opera d’arte, l’arte plastica convenzionale e la robotica si scambiano informazioni e dialogano. Cosa si dicono?
A.G: Negli anni ottanta e novanta chiamavo alcune sculture “hopeful monsters” forme biomorfe interattive che speravano in una accettazione nel mondo in cui erano state ridisegnate. Oggi i robots sono “affective” dolci, teneri, affettuosi; non solo cercano un’accettazione, ma anche un rapporto empatico affettuoso con l’altra scultura, e nel gioco delle relazioni cognitive, ovviamente con noi.
Il “telepatico”parlare tra loro ricorda una trasmissione radiofonica degli anni ’70, “le interviste impossibili”, dove un contemporaneo intervistava un personaggio di altre epoche: Calvino parlava con l’uomo do Neanderthal, Umberto Eco con Pitagora ecc. Io ho imparato molto “chiaccherando” con Erone (61 dc) , con Al-Jazari (XIIsec), con Kirchner e Schott (XVIIsec.) e la loro idea di tecnica come arte delle meraviglie. Parlare con altre epoche mi serve per capire, vado molto nel passato per meglio pensare il futuro. E le sculture si sussurrano tutto quello che sanno e che reciprocamente continuano ad apprendere.
F.L: C’è una specie di ritmo nel tuo studio. Forse è la disposizione dei libri, forse degli oggetti, forse gli strumenti musicali che si vedono (i violini, la tastiere, le casse). La musica è da sempre un’arte sincretica che combina arte, tecnica e spiritualità, con una naturalezza che a fatica è stata riconosciuta ad altre forme creative: cosa ne pensi? Qual è il tuo rapporto con il suono? Ascolti musica mentre lavori? Sei una persona musicale? Ti piace ballare?
A.G: Ho iniziato a studiare pianoforte da ragazzino. Poi, parallelamente agli studi accademici di arti visive, ho fatto qualche studio di composizione per poi dedicarmi alla musica elettronica o meglio, allo studio del suono come evento fisico e nelle sue componenti strutturali, proprio per cercare di capire la natura del suo potere sincretico di cui parlavi. Ho fatto ricerca presso il Politecnico di Milano e il Centro di Sonologia dell’Università di Padova e ho convogliato il tutto nelle sculture sonore. È per questo che le mie opere, parlano, suonano, recitano poesie ecc.
Mentre lavoro c’è sempre musica, dalla Gregoriana al Barocco, dalla contemporanea al Jazz, Pop ecc.
Non ho un rapporto con il ballo inteso da discoteca. Non ci ho mai messo piede in vita mia. Se però intendi il ballo come corpo che si muove con consapevolezza devo dirti che studio e pratico Taiji cinese da trent’anni. Nelle sue forme c’è una continua danza con tutto il corpo, il suo interno e le sue relazioni possibili con l’ambiente. Se me lo accetti come esempio di ballo, allora sì, ballo quasi tutti i giorni da solo e settimanalmente condivido quello che ho appreso qui e in Cina con amici.
F.L: A proposito di condivisione... Quel divano rosso... lo condividi con qualcuno? Sei abituato a invitare amici o conoscenti nel tuo studio per mostrare loro le tue nuove opere o anche solo per chiacchierare?
A.G: È un vecchio divano che ha ospitato e vissuto con mio padre negli ultimi suoi anni. Credo che conosca più cose di lui (il divano) che non io come figlio. Per questo lo tengo, so che ha un’anima piena di cose.
Lo studio non è molto frequentato da gente. I critici attenti al lavoro degli artisti che visitano gli studi sono in via di estinzione, chi ti organizza mostre si fida sulla parola per non perder tempo, e gli artisti, spesso chiusi nel loro autismo egocentrico, se vengono a farti visita iniziano a parlare di sé stessi, del loro lavoro e a volte non notano neanche ciò che li circonda.
«Parlare con altre epoche mi serve per capire, vado molto nel passato per meglio pensare il futuro.»
F.L: Quali sono gli attrezzi da lavoro da cui non ti separeresti mai?
A.G: Una penna a sfera. È lo strumento più diretto tra i miei neuroni e il foglio per buttar giù le idee che ti “passano” per la mente.
E poi l’iPad. Ci fai tutto: comunicazione, ricerca, appunti, musica, disegno, progetti in 3d, foto, video, documentazione ecc. Ancora una volta passato e presente eh?!
F.L: Scienziato, intellettuale ed artista: nel tuo studio ci sono tanti libri. Per forza! Ce n’è uno che ha cambiato il tuo modo di interpretare la realtà?
A.G: Sicuramente "L’albero della conoscenza" di Maturana e Varela.
Ma in egual misura "Il metodo", di Edgar Morin. Di quest’ultimo, oltre ai contenuti, mi ha pure colpito che, ad un certo punto del libro, tra dissertazioni circa l’ordine, il disordine, la complessità delle cose, l’organizzazione ecc. improvvisamente, senza alcun riferimento al contesto, parla per una pagina intera di quello che vede dalla sua finestra. Un esempio di come possiamo teorizzare, astrarci in grandi pensieri ma un referente rimane anche l’ambiente che ci circonda, il nostro complesso rapporto del “guardare” le cose. Il nostro “occhio”!