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Interview and studio visit #16

Marco Bongiorni

Drawing as Fighting

Ph. Francesca Iovene
Ed. Francesca Iovene

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F.I.: Entro nel tuo studio, mi trovo di fronte una spalliera, poi mi giro e c’è una enorme parete piena di tele appoggiate a terra, sovrapposte tra loro. Capisco subito che quella è la parete su cui esponi per te stesso le tue opere, per guardarle, pensarle, lasciarle sedimentare e magari ricomporle.

Mi parli dell’idea di “quadreria”, se fosse per te i tuoi quadri cambierebbero spesso posizione e quindi rapporto tra di loro, ma alcuni quadri hanno bisogno di essere completati trovando il loro posto e la giusta composizione. Immagino che a volte sia un processo razionale e progettato, altre diventa il risultato di un processo più intuitivo e imprevedibile. Possiamo dire che hai la necessità di leggere il quadro non solo come un’immagine, ma anche come un oggetto, come qualcosa che c’entra con il suo interno, ma anche con l’esterno? Come ti rapporti con le tue opere in questo senso?

M.B.: È vero! Se fosse per me, cambierei parete, disposizione e anche titoli dei miei lavori ogni settimana. La pittura sopporta poco le convenzioni anche quando ci rassicurano. Mi piace guardare i quadri sovrapposti, in fila o appoggiati uno sopra l’altro come in una costante ricerca di equilibri e connessioni. Certo, sanno vivere anche soli, ma pare che a volte abbiano la necessità di stare in gruppo, avvicinarsi tra loro per trovare un appoggio, un momento in cui legarsi al mondo esterno e magari contaminarsi. La vita di un dipinto è apparentemente risolta tra margini della tela, ma in realtà è costantemente in tensione verso ciò che avviene fuori da essi. Ce lo insegnano le icone e grandi cicli pittorici.
In questo senso, credo che sia importante tornare a leggere il quadro come un oggetto pittorico prima ancora di essere immagine. La pittura non è una tecnica di rappresentazione visiva, un filtro da potere applicare ad un immagine per renderla calda o pastosa. Stiamo parlando di un linguaggio con meccanismi che non possono essere svincolati dalla sua presenza/essenza fisica. Mi interessa l’oggetto pittorico inteso come display in grado di trattenere le tracce processuali del suo esistere e insieme suggerire traiettorie di lettura future. Lavoro da anni sul format del polittico, accostando due o più tele tra loro o giustapponendole ad oggetti, disegni o immagini. Ogni volta mi pare di intravedere un sollievo. Come se ogni dipinto riposasse un poco appoggiato su un un appiglio inaspettato.

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F.I.: Il tuo studio dice tante cose non solo attraverso la parete “espositiva”, ma anche attraverso tracce più personali: l’asciugamano da palestra, la sacca della Leone, il quadrato disegnato a terra con lo scotch. C’è anche un foglio appeso con un elenco il cui titolo è “Drawing as Fighting”. La tua vita personale e artistica si intrecciano e inevitabilmente si sovrappongono, come hai messo in relazione il pugilato e il disegno e cosa viene fuori da questo accostamento che ha influenzato nella pratica la tua tecnica pittorica?

M.B.: Ho cominciato a praticare il Pugilato con Davide Guarino; un grande atleta, un ottimo maestro, un amico. Lui mi ha fatto appassionare a questa disciplina, ma non posso considerarmi un pugile. Ho troppo rispetto per quelli che spendono tutto tra allenamento e combattimento. Che soffrono e che rischiano molto.
Sono un pittore innamorato della Boxe e in questi anni in palestra, tra corda e sacco pesante, mi accorgevo che la boxe e il disegno hanno molti aspetti in comune; sono entrambe discipline che si sviluppano e trovano forza attorno ai limiti da cui nascono.
Un ring visto dall’alto è come un foglio. Uno spazio chiuso, ben delimitato, ma libero di essere indagato.
Mentre disegno mi muovo secondo traiettorie e meccanismi che ritrovo per esempio nella Shadow Boxe e cioè l’allenamento in cui il pugile porta colpi, sequenze e figure senza avere un avversario di fronte, colpendo il vuoto. In questa fase sembra combattere contro la propria ombra e sono fondamentali le capacità di coordinazione visivo/motorie. Oppure il ritmo, che nel disegno varia come durante un round di boxe.
E ancora la “distanza giusta” con l’avversario, che ogni maestro ti insegna a trovare e mantenere legandoti un bastone tra le caviglie; è uno dei fondamentali imprescindibili del pugilato e risulta determinante anche nel rapporto con il soggetto del disegno.
Da qui nasce Drawing as Fighting, un progetto che prova a mettere in relazione l’attitudine del disegnatore e quella del pugile.Si tratta di un workshop di disegno sperimentale che propone una serie di esercizi e pratiche ispirate al mondo del pugilato. Nel 2016 sono stato invitato insieme a Gabriele Sassone al Palais de Tokyo di Parigi e abbiamo performato portando due pugili professionisti negli spazi del museo e dando vita ad un laboratorio aperto al pubblico in cui il disegno e la boxe condividevano lo stesso ring. Drawing as Fighting sta per avere una declinazione editoriale: sarà a metà tra manuale di disegno contemporaneo e libro d’artista.
Presto.

«Mi interessa l’oggetto pittorico inteso come display in grado di trattenere le tracce processuali del suo esistere e insieme suggerire traiettorie di lettura future.»

F.I.: Hai tirato fuori una grande cartella piena di fogli da una cassettiera da architetto che era di tuo padre, contiene tantissimi autoritratti anche molto diversi tra loro, disegni su carte gialle, bianche, pagine strappate da altro, carte scenografiche e sporche, disegni fatti con la bic, gesso, pennarelli, china... il tuo volto ogni volta è ritratto in maniera differente, a volte irriconoscibile. Perché hai questa necessità di disegnarti? In che contesti ti capita di farlo?

M.B.: Disegno da sempre, quasi tutti i giorni. Per me l’autoritratto sta a metà tra il rito e l’allenamento. Prediligo il disegno dal vero, rispetto a quello da foto o senza riferimenti visivi. Il mio volto diventa una sorta di soggetto obbligato visto che è spesso l’unico soggetto vivente in studio.
Negli anni ho praticato l’autoritratto quasi ovunque con qualsiasi materia e su qualsiasi superficie: in autobus, in aereo, in treno, ma anche su vagoni di un treno, su taccuino, su fogli sparsi, con penna bic, grafite, gesso, olio, su metallo, su legno, su tela, su cofani di auto, muri, cartelloni pubblicitari, con spray, laser, acqua, specchiandomi in un fiume, in una finestra rotta, nello schermo dell’iphone, su carta vecchia, su carta nuova, su neve sporca, in digitale, grande formato, medio formato, piccolo formato, su foto, su vetro, su plexiglas, bidoni arrugginiti e persino su un pannolino di mio figlio.
Ogni volta è una lotta tra ciò che vedo e ciò che penso di vedere.
Sono fortunato quando riesco a forzare il blocco del pensiero. Il mio volto sfugge, diventa di altri; uomini di tempi e luoghi distanti. Poi, torna da me, si ricompone e lo vedo tracciarsi davanti a ai miei occhi. Per un attimo, riesce a raccontarmi le vite che avrei vissuto.

«Ogni volta è una lotta tra ciò che vedo e ciò che penso di vedere. Sono fortunato quando riesco a forzare il blocco del pensiero. Il mio volto sfugge, diventa di altri; uomini di tempi e luoghi distanti. Poi, torna da me, si ricompone e lo vedo tracciarsi davanti a ai miei occhi. Per un attimo, riesce a raccontarmi le vite che avrei vissuto.»

F.I.: Mi hai chiesto se secondo me il tuo lavoro suscita sensazioni di “paura”, ma non credo che sia la giusta parola da utilizzare. Per esempio, quando guardo i tuoi autoritratti, i tuoi mille volti, vedo parti di un volto messi insieme in momenti diversi, proprio perché la tecnica che usi per disegnare c’entra con il tentativo di creare movimento all’interno di un preciso campo visivo, in un preciso lasso di tempo. Da dove nasce quest’obiettivo?

M.B.: Negli anni 60 un ricercatore russo di nome Alfred Yarbus dimostra con attrezzature sperimentali che durante l’atto della guardare, il nostro occhio non è fermo, ma risulta impegnato in una serie di micro movimenti molto rapidi che indagano il campo visivo. Questi movimenti sono chiamati saccadi e hanno il compito di portare gli elementi osservati in corrispondenza con la fovea, dove avviene appunto la visione.
Ciò che fa paura è che durante questi movimenti non c’è visione. E’ come se per vedere avessimo bisogno di diventare ciechi per un’istante.
I pittori sanno da sempre che il visibile non è dato per scontato e che proprio la sua messa in dubbio permette alla forma di rinnovarsi.
I miei lavori vivono in costante bilico tra ciò che è visto e ciò che è dimenticato; sono dipinti ad olio su tela, carboni, graffiti e gessi su carta, legno e altro. Sono fissi, ma cercano l’instabilità. Sono fermi, ma provano a smarcarsi. Si mostrano, ma ti contestano.

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«Lavoro da anni sul format del polittico, accostato due o più tele tra loro o giustapponendole ad oggetti, disegni o immagini. Ogni volta mi pare di intravedere un sollievo. Come se ogni dipinto riposasse un poco appoggiato su un un appiglio inaspettato.»

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F.I.: Riprendiamo il discorso degli accostamenti: la natura morta, il disegno dal vero, e le fotografie dei dittatori contemporanei, appesi uno sopra l’altro. Quando e come è nato questo lavoro?

M.B.: SLPFL (Still Life / President for Life) è una serie di piccoli dipinti ad olio realizzati negli ultimi due anni. Sono piccole nature morte che ho dipinto dal vero, ritraendo composizioni di oggetti poveri e di poco conto, come limoni e melograni marci, ortensie grigie, pani secchi, stracci e vasetti di vetro sporchi di colore. Li ho allestiti in un angolo dello studio. Sul bordo superiore di queste tele ho appoggiato una piccola immagine di un dittatore contemporaneo, chiusa tra due lastre di vetro tenute insieme da nastro adesivo. L’immagine funziona un po’ da contrappunto rispetto alla tela: è un cortocircuito visivo, ma anche cognitivo e concettuale il cui scopo è farti dubitare della sua stessa efficacia. Mi sono chiesto già molte volte come potessero convivere un immagine di un dittatore e un limone marcio, poi mi sono accorto che i termini inglesi contengono tutti e due la parola Life. Come se l’inesorabilità di questi due soggetti si dimostrasse possibile solamente in relazione ad una energia generatrice. Mike Watson ha scritto una bella frase a proposito dei miei limoni sovrastati da dittatori: “If there are lemons, there might be other real things and, as such, a whole world to be configured by human subjects”.

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«I miei lavori vivono in costante bilico tra ciò che è visto e ciò che è dimenticato; sono dipinti ad olio su tela, carboni, graffiti e gessi su carta, legno e altro. Sono fissi, ma cercano l’instabilità. Sono fermi, ma provano a smarcarsi. Si mostrano, ma ti contestano.»

F.I.: SLPFL è stato esposto insieme a “Kangal”, il cui nome riprende quello della razza canina che solitamente affiancava i pastori per la protezione del gregge e che, nel corso della storia, soprattutto negli ultimi anni è stato costretta a rispondere a una serie di standard sempre più elevati. Anche in questo caso hai usato dei filtri visivi autoprodotti, creando un’analogia tra il concetto e il modo in cui viene rappresentato. Vedo quindi un leitmotiv in tutto il tuo lavoro: dicevamo in fondo che anche se non fai una serie pensata in quanto serie, ti piace accostare le tele e vederle insieme, potendo constatare che esiste una certa coerenza in tutte le tue opere... pensi che questo risultato sia stato raggiunto in modo piuttosto naturale o c’è una razionalità molto forte che ti porta a continuare a approfondire certi temi (e mezzi) con costanza?

M.B.: Kangal è uno dei nomi del cane da Pastore Turco. Conosciuto anche come Karabash (Muso Nero) è un animale antico, forte, tenace, abituato a vivere negli altipiani dell’Anatolia occidentale. Il quadro ha dato il nome ad un’intera mostra che mi sembra emblematica rispetto alla tua domanda.
Tutte le opere in mostra sono state dipinte utilizzando una serie di visori autoprodotti, realizzati con l’aiuto di lenti di ingrandimento, isolatori ottici, specchi, maschere subacquee, occhiali e visori VR che non si limitano ad alterare la percezione visiva, ma diventano veri e propri atti coercitivi con il compito di condizionare le ampiezze di movimento e di definizione dell’occhio stesso e al contempo generare reazioni, resistenze e strascichi cognitivi inattesi.
L’impedimento visivo è in realtà un un atto di eversione nei confronti della dittatura dell’immagine contemporanea, una presa di coscienza e dichiarazione di autonomia, un tentativo di ribaltare sudditanze gerarchiche e significanti dal sistema di pensiero dominante.
Ogni opera nasce però in autonomia e segue degli sviluppi che le sono propri. Esattamente come il collare Anti-Lupo (introdotto per la prima volta proprio in Anatolia dai pastori turchi) o Il Dangle Stick (il bastone con cui i pastori rumeni vestono i loro cani per inibirne gli istinti predatori) il mio processo pittorico vive di costrizioni e fughe tra il mondo selvatico e quello domestico.

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F.I.: cosa vedi nel tuo più o meno immediato futuro?
M.B.: Questa estate sarò in Corsica a fare immersione in apnea. Quindi Le Grand Bleu.

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