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Interview and studio visit #15

Andrea Martinucci

Simulacra

Ph. Jessica Soffiati
Ed. Jessica Soffiati

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J.S: Portone, citofono, non mi ricordo il piano anche se sono già stata qui... grande classico! Allora faccio le scale a piedi scorrendo tutti i piani del cortile di ringhiera cercandoti per dissimulare la mia ricaduta sulla stessa stupida mancanza di memoria. Piano primo, piano secondo, indugio,... sei quasi nascosto dietro la porta ma ti ho visto, volevi vedere se ce la facevo da sola, ridiamo, ti chiedo un caffè, “magari anche una sigaretta, posso?”
Vivi qui da solo la tua casa è anche il tuo studio, le due vite coincidono ma occupano stanze diverse. Sembra tutto abbastanza ordinato, quanta autodisciplina serve per vivere e lavorare nello stesso posto?

A.M: Mi piace sempre osservare chi viene a trovarmi, nascosto prima dalla magnolia della corte e poi dietro la porta di casa. È un po’ come se fosse un atto di ricerca tra nuove o vecchie entità che stanno per incontrarsi. Il sorriso di chi trova l’arrivo al labirinto lo prendo come un regalo.
Proprio dietro quella magnolia ho fondato il mio angolo nel mondo, un luogo che mi protegge e che riesco a sentire “mio” come raramente mi succede. Tutti rimangono impressionati dall’ordine ma per far coincidere le mie due vite da abitante e da pittore ho bisogno di questo altrimenti mi perdo nel caos che già vive dentro di me. Sarà un bene?

Come avrai visto le sigarette dentro il posacenere per fortuna non seguono logiche geometriche.

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«Mi piace avere mille identità e mille punti di vista proprio per abbracciare una poetica che cerca dei nuovi paradossi.
Non voglio far riconoscere esclusivamente delle scene ma voglio creare situazioni assurde, contrastanti tra di loro che magari, nella loro totalità possono apparire come icone. Ma fidati, forse la maggior parte delle volte sono solo dei simulacri» ...

 

J.S: Il tuo linguaggio espressivo si basa certamente sull’esperienza, sei testimone dell’epoca storica in cui viviamo e dei suoi mezzi di comunicazione ma allo stesso tempo tutti i tuoi lavori sono così iconici che potremmo prendere ogni singolo elemento che li compone e ripercorrere la storia a ritroso dando nuovi significati anche al passato.
Ad esempio in “Jpeg” il punto di partenza sono sempre delle immagini prese dai social; scene di vita di sconosciuti che tu prendi, vivisezioni e separi in simboli di cui ti servirai per dare vita a nuovi messaggi.
Guardando le tue opere, soprattutto le più recenti, ho pensato all’aggettivo “perturbante”.
Inquietudini, paure, messaggi poco rassicuranti sono spesso il risultato di una somma di elementi fluttuanti, apparentemente frivoli e corrispondenti, a volte, anche a trend passeggeri.
Quanto influenzano il tuo lavoro la psicologia e la filosofia?

A.M: Giocare con l’arte è fondamentale. Ed è un gioco quotidiano: in studio, con il mio viso, nei vernissage e tramite i social. Divertirsi: usare nuovi elementi da mescolare per poi annullarli tra le mille contraddizioni e discussioni, tipici della mia persona. Continuare a cercare, avere un approccio ironico con tutto ciò che vivo. Cercare sempre di dare un ritmo alla ricerca che ho deciso di approfondire. Non annoiarmi.

Osservo tutto con un occhio critico mettendo in relazione le mie idee con quelle delle teorie sociologiche e filosofiche che possono interessarsi al nostro contemporaneo. Non voglio far nascere un pensiero che coincida perfettamente con il nostro tempo, né che si adatti alle sue richieste. Non mi sento mai a “casa” nel mio presente. Gli elementi di riflessione dell’essere umano, oggettivamente, sono spesso gli stessi; le teorie filosofiche possono ripetersi ma devono essere azzeccate in base al tempo in cui ci vogliamo trovare. Solo così riesco a portare dei nuovi sviluppi alla ricerca che ormai ho sposato negli ultimi anni.

Detto ciò rimane fondamentale il bisogno di non prendermi troppo sul serio, anche se ho a che fare con immagini e parole di fuoco.

J.S: C’è molto della tua esperienza personale nelle tue opere?

A.M: Non c’è una regola in quello che inserisco nelle opere.
A volte sono io a parlare, altre volte sono una ragazzina giapponese appassionata di videogiochi, uno skater del Bronx, una statua greca. Altre invece riesco addirittura a essere una libellula che si poggia su un bomber verde elettrico, illusa di aver trovato finalmente il prato. M’immedesimo in loro, li incarno e li abbandono.

Mi piace avere mille identità e mille punti di vista proprio per abbracciare una poetica che cerca dei nuovi paradossi.
Non voglio far riconoscere esclusivamente delle scene ma voglio creare situazioni assurde, contrastanti tra di loro che magari, nella loro totalità possono apparire come icone. Ma fidati, forse la maggior parte delle volte sono solo dei simulacri.

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«A volte sono io a parlare, altre volte sono una ragazzina giapponese appassionata di videogiochi, uno skater del Bronx, una statua greca. Altre invece riesco addirittura a essere una libellula che si poggia su un bomber verde elettrico, illusa di aver trovato finalmente il prato. M’immedesimo in loro, li incarno e li abbandono.»

«Tutti noi siamo imprenditori di noi stessi e la società non ci permette per nessun motivo di sbagliare. Dobbiamo essere sempre brillanti, vincitori e mai vinti. Io ho sbagliato spesso, sono caduto con frequenza ma sono sempre stato in grado di ripartire avendo introiettato tutto ciò che c’era da imparare.»

J.S: Stavo pensando, mentre mi parlavi, a un’altra parola: sottrazione.
Un’altra cosa che fai è rappresentare una scena nella sua interezza e sottrarvi tutto, scarnificare il soggetto fino all’osso. L’osso è il punctum, l’elemento veramente importante, l’unico che possa comunicare il messaggio.
Quando hai iniziato a lavorare in questo modo? Ha a che fare col tuo primo quadro?

A.M: Seppur sono sempre stato affascinato dalle figure, il punctum di cui giustamente parli, è la parte che mi stuzzica di più. Qui riesco ad arrivare alla storia e quindi alla polpa. L’elemento che ti porti con te.

Ti ho fatto vedere il mio primo quadro, forse una delle cose più intime che ho in questi 50mq. Ho accettato che tu venissi nei miei spazi e mi sembrava giusto mostrarti cosa si nasconde dietro i miei muri. Avrò avuto 7/8 anni quando decisi di ritrarre la cuoca della mia scuola. Quel quadro rimase per diversi anni tra la polvere del mio studio a Roma. Un giorno, mio nonno vide quella tela così infantile e decise di coprirla con uno strato di stucco bianco. Ferito dalla scena, gli chiesi perché avesse fatto una cosa del genere. Mi disse: “Beh, ora puoi utilizzarla per fare dei nuovi dipinti”. Quell’azione è stata di una violenza estrema ma questa sottrazione mi ha permesso di immaginare delle nuove situazioni partendo da quel nulla, da quel passato eliminato. Per la serie .jpeg forse quella è l’opera più importante. Magari un giorno l’userò.

«Un giorno, mio nonno vide quella tela così infantile e decise di coprirla con uno strato di stucco bianco. Ferito dalla scena, gli chiesi perché avesse fatto una cosa del genere. Mi disse: “Beh, ora puoi utilizzarla per fare dei nuovi dipinti”.»

J.S: Che tecniche pittoriche usi? Pensi che anche questa scelta faccia parte del pensiero ampio che porta al compimento i tuoi quadri?

A.M: Come saprai, la tecnica mi interessa relativamente. Non provo fatica quando dipingo e la mia mano procede sola senza nessun freno. Uso l’acrilico perché i tempi di asciugatura sono estremamente veloci e durante l’atto pittorico sono una persona impaziente. Preferisco prendermi più tempo per osservare sul divano il lavoro in realizzazione. Inoltre, scelgo l’acrilico anche per sfidare i gradienti che vanno a coprire la superficie figurativa. Qui non ho il tempo fisico per ritoccare nulla. Se le sfumature non vengono come voglio, ho buttato un lavoro. Non voglio ripassare qualcosa che già ha avuto la propria vita.

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J.S: Caducità, fragilità e fallimento che solitamente l’uomo contemporaneo rifugge per sentirsi all’altezza di una società sempre più esigente su tutti i fronti, sono affrontate come qualità del fare creativo. L’errore è spesso il punto di partenza per una grande intuizione? E il colore che parte ha nell’insieme?

A.M: Ultimamente ho dialogato circa questo tema con i curatori del progetto “ Da Franco – Senza Appuntamento”. Abbiamo realizzato una fanzine con un testo teorico di Laura Amann dove si partiva proprio da questo concetto. Tutti noi siamo imprenditori di noi stessi e la società non ci permette per nessun motivo di sbagliare. Dobbiamo essere sempre brillanti, vincitori e mai vinti. Io ho sbagliato spesso, sono caduto con frequenza ma sono sempre stato in grado di ripartire avendo introiettato tutto ciò che c’era da imparare.

Per la fanzine ho presentato quattro pagine che frammentavano una scritta dai sapori pop: “ADAPT OR DIE.” arrivando a una frammentazione e poi sintesi generata dal punto finale della frase. Il colore brillante naturalmente accoglieva queste parole sminuendo la violenza della locuzione. Anche i pesci si camuffano cromaticamente con l’ambiente circostante per arrivare con più facilità alla loro preda. Io come loro, camuffo le scene con colori brillanti che piacciono tanto alla società spaventata dal fallimento.

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«Anche i pesci si camuffano cromaticamente con l’ambiente circostante per arrivare con più facilità alla loro preda. Io come loro, camuffo le scene con colori brillanti che piacciono tanto alla società spaventata dal fallimento.»

J.S: Che progetti hai per il futuro? So che parteciperai a qualche collettiva e che c’è nelle vicinanze anche una personale...

A.M: In questa fase ho mandato in vacanza i pennelli per approfondire tutti i libri che avevo lasciato dentro la libreria. Sto preparando vari progetti sia in Italia, sia all’estero.

In autunno avrò una serie di collettive, una mostra personale da Dimora Artica e un nuovo progetto in Belgio. Diciamo che ce la metto tutta, per il rispetto delle opere.

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