Bottega Costantini
Custodire una tradizione
Ph. Francesca Iovene
Ed. Francesca Iovene
Special contributor: Francesca Morini
F.I.: Innanzitutto dovremmo parlare del luogo: ci troviamo a Laveno Mombello, sul lago Maggiore, ed è qui che Marco Costantini ha fondato la sua Bottega nel 1966. Quello che colpisce entrando dalla porta è la sensazione di casa e intimità che si trova all’interno del piano terra: il vero e proprio laboratorio dove la ceramica viene finemente decorata.
Adesso a condurre la Bottega ci sei tu Lena, figlia di Marco, con il marito Franco Toci e la figlia Serena. Come si viene influenzati nel corso della propria vita da una tradizione così forte e radicata che per altro è situata alla base (in senso letterario e strutturale) di casa vostra?
L.C.: Attualmente, la conduzione della nostra “Bottega” è affidata a nostra figlia Serena, invece noi, io e mio marito, siamo in pensione, anche se continuiamo in qualche maniera a dare il nostro sostegno. A queste domande, naturalmente con la collaborazione di Franco e Serena, risponderò io, visto che sono quella da più tempo coinvolta: fin da piccola ho vissuto a contatto con il mondo della ceramica e dell’incisione. Ho cominciato molto presto il tirocinio con il Bulino ferro che serve per l’incisione diretta sulla lastra di metallo, seguita da mio padre e dall’orafo Ambrogio Nicolini che fu suo maestro. Ho poi proseguito gli studi artistici a Milano al liceo di Brera e successivamente, per la ceramica, all’Istituto d’arte di Sesto Fiorentino. Terminati gli studi, ho cominciato a lavorare sia nel campo della ceramica che in quello della grafica: ho partecipato con buon successo ad alcuni concorsi internazionali di Faenza, a diverse collettive internazionali di grafica, nonché a numerose mostre personali.
F.I.: Una grande finestra da cui entra una luce diffusa e un lungo tavolo da lavoro pieno di attrezzi, stracci, piatti e lastre di rame acciaiato. Le due tecniche in cui storicamente eccellete sono bulino e acquaforte. Puoi spiegarci brevemente in cosa consistono? C’è stata dell’innovazione nel corso del tempo? Per chi realizzate ora i vostri pezzi?
L.C.: Il bulino è l’utensile adoperato per l’incisione a mano di vari metalli. È un’asticciola d’acciaio che presenta ad una estremità un taglio obliquo e diagonale che forma una punta, infissa in un manico di legno. A differenza dell’acquaforte, l’incisione col bulino non prevede la morsura con acidi, il solco nella lastra è ottenuto tramite l’azione del ferro che asporta un ricciolino di metallo.
Durante gli anni la tecnica non è molto cambiata, si è perfezionata con l’aumentare della nostra esperienza e i tipi di decoro si sono adeguati ai tempi. La nostra è una vendita diretta al privato e basata unicamente, come pubblicità, sul passaparola.
F.I.: Marco Costantini non solo era un esecutore, ma era anche e soprattutto un importante autore. Ci avete raccontato che spesso le riproduzioni sui piatti erano disegnate da lui e realizzava inoltre il decoro “Incisa Oro Zecchino”. Mi chiedo quindi, da autore, quali rapporti avesse con gallerie e committenze e invece, nel secondo caso, da esecutore, quali artisti si siano interessati e abbiano fatto uso di queste tecniche pregiatissime.
L.C.: Mio padre lavorò negli stabilimenti della Ceramica Lavenese occupandosi di incisioni per la decorazione di terraglia e porcellana, senza però smettere di lavorare in proprio. Non solo realizzò opere personali, ma si occupò anche di trasposizioni da disegni di Guido Andlovitz, Antonia Campi, Leonor Fini e Mario Villani Marchi. Alcune di queste opere furono anche esposte alla Triennale di Milano nel 1951. Come autore, mio padre espose le sue incisioni sia in Italia, alla Biennale di Venezia, per esempio, che all’estero: Bruxelles, Nancy, alla Biennale di San Paolo e in Russia. Durante il periodo di attività a Laveno, negli anni ’50 e ’60 circa, insieme ad alcuni chimici, riuscì a realizzare il decoro “Incisa oro zecchino”, che venne utilizzato anche per realizzare il servizio da tavola per il Negus Imperatore d’Etiopia, con un disegno pensato appositamente per quella commissione. Mio padre riuscì a bilanciare il lavoro come autore e come esecutore: oltre ad essere un lavoratore di grande costanza, continuò sempre a operare in ambito artistico, ricercando una sua espressione che lo portò a ottenere un grande successo.
F.I.: Marco Costantini era nato e cresciuto a Laveno Mombello. Come mai scelse di rimanere e aprire la propria Bottega proprio lì? È un paese che possiede una storia importante?
L.C.: Laveno Mombello è stata per tantissimi anni conosciuta come importante luogo di produzione di ceramiche e porcellane in campo internazionale. Attualmente è entrata a far parte del circuito ‘’Città della Ceramica’’.
Nel 1966, chiuso il reparto per la fabbricazione della porcellana alle Ceramiche di Laveno, dove lui lavorava, decise di avviare un proprio laboratorio con i suoi figli, io e Pietro, il quale, gravemente malato, morì nel 1968. Il laboratorio viene per la prima volta definito ‘’Bottega dei Costantini’’ nella presentazione di Luciano Gallina alla mostra di mio padre, me e Pietro tenutasi al Chiostro di Voltorre – Gavirate nel 1980.
F.I.: Il vostro mestiere è ormai sempre più raro, soprattutto nel modo in cui lo portate avanti voi. Usate materie prime molto specifiche per poter lavorare alle vostre opere, ci sono degli strumenti o dei materiali che sono necessari e che si faticano ormai a trovare sul mercato?
L.C.: Certo, tutto cambia: il nostro è un lavoro soprattutto manuale e ad oggi non può essere competitivo, quindi è in via di estinzione - per non dire del tutto estinto. Di conseguenza anche tutto ciò che serve per realizzare i nostri oggetti è di difficile reperibilità.
«Entrò un giorno il pittore Luigi Russolo per osservare il rudimentale torchio che già tenevo, illudendosi in un pratico funzionamento dello stesso. Egli lo adocchiò e subito sentenziò che non era fatto come da regola, e disse: -Chi è quel cretino che te l’ha costruito?-»
F.I.: In un’altra stanza del laboratorio c’è questo bellissimo torchio interamente costruito da tuo nonno Giuseppe. Mi hai raccontato che era ciclista e aveva un negozio di bici: le catene delle biciclette infatti sono state usate come cinghie. Come nasce questo strumento e perché? Qual è la sua storia?
L.C.: Il torchio, sì, il vecchio torchio per calcografia, nasce dall’esigenza di mio padre, Marco Costantini, di poter stampare le sue incisioni nei primi anni ’40, dato che in paese non c’era nessuno che potesse farlo per lui. Su questo torchio ha stampato le sue incisioni anche Luigi Russolo, uno dei fondatori del futurismo che in quegli anni viveva a Cerro di Laveno.
Mio padre incontrò Russolo durante il periodo della guerra 1940/1945 e lo frequentò fino al 1947, anno della sua morte. Fu un comune amico, il violinista Turati Sartorio, a portare il pittore nel suo laboratorio per vedere il torchio calcografico che usava. E questa è una storia raccontata in prima persona da Marco Costantini: "In quel posto, dunque, entrò un giorno il pittore Luigi Russolo per osservare il rudimentale torchio che già tenevo, illudendosi in un pratico funzionamento dello stesso. Egli lo adocchiò e subito sentenziò che non era fatto come da regola, e disse: -Chi è quel cretino che te l’ha costruito?- Risposi: - Il ciclista Spertini (mio nonno) che ha la bottega qua fuori. - Rispose lui - Digli di fare il suo mestiere, che su questo coso io non metterò mai i miei “rami.” Cerca di capire, il movimento del rullo inferiore avrebbe dovuto essere pertinente al rullo superiore e viceversa.- E se ne andò irritatissimo con a ruota l’amico Turati, desolato forse per il tempo che, inconsciamente, aveva fatto sciupare al Maestro. Il giorno dopo entrò di sopra in casa un Russolo arrabbiatissimo: - Andiamo - mi disse - andiamo giù a stampare, che il cretino sono io: il torchio va benissimo così.-"