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Interview and studio visit #8

Maurice Pefura

L'architettura del ricordo

Ph. Francesca Iovene
Ed. Francesca Iovene

F.I.: Ho trovato molto interessante "If You Can’t Swim" per vari temi in realtà. Mi piace l’idea che sta dietro al metodo: come una semplice griglia, dei bianchi e dei neri, in due dimensioni, riesca a suggerire subito all’osservatore quello che è nella realtà. Bastano pochi tratti per far capire un concetto, come due linee disegnate su un foglio che rappresentano una montagna. Possiamo dire che lavori con il ricordo di chi guarda il tuo lavoro?

M.P.: L’obiettivo è fare in modo che l’osservatore che sta di fronte all’opera riconosca qualcosa di reale. Il lavoro gli fa ricordare ciò che già conosce o di cui ha avuto esperienza. Ci sono due questioni: all’inizio cercavo un modo di parlare dello spazio e di quello che noi riconosciamo come elementi che costituiscono la città. Si basa sulla ripetizione, sull’addizione, sulla moltiplicazione, sulla densità. Volevo trovare un modo semplice di poter parlare dello spazio, che per me è un gioco di vuoto e pieno. Volevo rappresentare un concetto come un luogo comune, senza essere specifico: non serve che sia rappresentato un edificio esistente, ma è l’idea dell’edificio quella che viene riconosciuta da tutti. Ci si avvicina alla realtà fotografica ma di fatto questo lavoro non è pensato per essere figurativo: se ti avvicini all’opera sembra tutto astratto e impreciso, non si individuano degli elementi veri e propri, ma se ti allontani e lo guardi per intero prende forma e capisci cosa stai guardando.
L’altra cosa invece sono i colori: sono dati anche da alcune cose che ho appiccicato sopra il disegno, come scontrini, confezioni, schedine del lotto… soprattutto le schedine. Mi affascina il fatto che qualcuno giochi con dei numeri. I numeri suggeriscono l’ordine e l’organizzazione, elementi fondamentali nello spazio urbano.

F.I.: Immagino che tu abbia ragionato su questi spazi urbani in base a un tuo vissuto. Dove ti trovavi quando hai iniziato a pensare a questi concetti? Cosa ti ricordano le tue opere, visto che abbiamo parlato di ricordo?

M.P.: Il punto di partenza di questo lavoro è la periferia di Parigi. Ci sono delle costruzioni che sono state fatte negli anni ’70, erano enormi edifici che avevano l’obiettivo di far vivere molte persone in una determinata quantità di spazio. È il risultato di quello che aveva cominciato Le Corbusier. Lui era partito con un ragionamento importante, era sincero, aveva la volontà di fare qualcosa di buono, ma le conseguenze che derivano da questo pensiero sono state diverse dalle sue aspettative e quindi ora bisogna fare un bilancio: capire cosa ha funzionato e cosa no. Credo che in generale l’architetto debba essere umile e un po’ modesto. È come quando gli architetti decidono che il calcestruzzo a vista è qualcosa di molto bello e sincero: progettano per delle persone che possiedono un concetto diverso di bellezza e che poi pensano che non sia ancora finito, che vada ancora dipinto. A volte non c’è abbastanza dialogo tra gli architetti e le persone comuni e queste ultime si ritrovano a dover vivere nel modo in cui l’architetto vorrebbe.

«La natura dev’essere trasformata a propria immagine e somiglianza. È qualcosa di intrinseco alla natura umana, come per il linguaggio: le cose che esistono sono quelle alla quale abbiamo dato un nome. Abbiamo bisogno di etichettarle per poterle capire, farle esistere.»

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F.I.: Se si ragiona molto sullo spazio costruito, ordinato e abitato, immagino che ci siano ragionamenti da fare anche sullo spazio non ancora organizzato e sulla natura.

M.P.: Anche in questo caso i pensieri sulla natura nascono dall’esperienza personale e dalla convinzione che ci sia come un riflesso umano incondizionato nel volersi pensare come onnipotente. È un modo di poter afferrare quello che è all’esterno, farlo suo, possederlo per comprenderlo. La natura dev’essere trasformata a propria immagine e somiglianza. È qualcosa di intrinseco alla natura umana, come per il linguaggio: le cose che esistono sono quelle alla quale abbiamo dato un nome. Abbiamo bisogno di etichettarle per poterle capire, farle esistere. Ma in realtà la natura esiste anche senza di noi e dobbiamo provare a correggere questo nostro riflesso.

F.I.: Quando ho visto il tuo spazio ho notato subito la relazione tra il studio e le tue opere. Più nello specifico, di come l’organizzazione del tuo spazio possa rispecchiare perfettamente il tuo lavoro e la tua vita (hai viaggiato, ti sei spostato, hai studiato architettura…). Gli scatoloni sembrano un’architettura, i tuoi lavori sul pavimento sembrano ordinati secondo una griglia. Il lavoro dell’artista è costante a livello mentale, anche inconscio: vedendo il tuo studio riesco a vederci un passato e un futuro, una sua storia.

M.P.: A un certo punto il fatto di lavorare sulle proprie cose molto tempo ti dà un’abilità, anche quando stai facendo altre cose che non c’entrano con il tuo lavoro. È un meccanismo nella mente che ti fa capire subito come fare o non fare. Soprattutto come non fare. Voglio dire che quando disegno qualcosa come questi palazzi io non posso più sbagliarmi, anche se dovessi farlo su un nuovo pezzo di carta con diverse proporzioni. C’è un automatismo che permettere alla mia mano di farlo in un certo modo, anche quando non sto riflettendo su cosa sto facendo. L’ho fatto per anni e la mente è già organizzata in un certo modo. Adesso devo spostare alcune cose e so quanto spazio mi serve per continuare a lavorare: mi sembra tutto già impostato nella testa. Avevo bisogno di avere dello spazio libero e quell’angolo che prima era vuoto era l’unico punto in cui potevo accatastare le mie cose e posizionare in verticale tutte le scatole che non mi servivano.

F.I.: La città in cui sei cresciuto e quella in cui vivi ora sono due luoghi molto diversi. A cui corrispondono visioni molto diverse. Mi piacerebbe capire che significato ha per te la valigia di “Nos Voyages immobiles”, se è un contenitore o un contenuto.

M.P.: La valigia è qualcosa che ha a che fare con la mente. Con i ricordi. I luoghi vissuti o attraversati e la memoria di questi luoghi. Mi piace pensare che i luoghi, che sono delle cose stabili, possano essere spostate e possano farlo attraverso il nostro corpo, attraverso il loro ricordo presente dentro di noi. Questa valigia rappresenta questa idea. Avevo iniziato a fare queste valigie pensando alla periferia di Parigi, ma per me il lavoro non riguarda solo la mia esperienza, ma tutti quei luoghi in cui ognuno può identificarsi per il suo vissuto. Milano, l’America, Parigi… gli spostamenti danno la possibilità di portarsi dentro un luogo di cui si ha memoria. 

F.I: Mi sembra di vedere altri due elementi importanti della vita, tra i disegni che ho visto: gli esseri umani (i loro volti) e dei paesaggi. Quindi, spazio urbano, paesaggio naturale, essere umano. Sono tre rappresentazioni di tre cose diverse, ma penso abbiano qualcosa in comune.

M.P.: Sono un po’ un altro lato del lavoro di cui ho parlato prima. I paesaggi rappresentano dei luoghi vuoti, senza niente. Mi piace che non si identifichino in un luogo specifico, quindi ognuno può ricordare qualcosa che c’entra con la propria esperienza. Devo trovare il modo di presentarli, non penso di volerlo fare con dei quadri singoli. È un progetto ancora in divenire, da studiare, continuerò periodicamente a produrre nuovi paesaggi e a un certo punto li assemblerò per creare qualcosa di nuovo e definitivo.
Le teste, invece, sono come delle facce, delle figure che rappresentano persone anonime, anche in questo caso non sono ritratti di qualcuno di particolare. Si ripete il concetto del paesaggio naturale e di quello urbano. Sono come silhouette più che ritratti, ma voglio che tu ci possa leggere dei ritratti. 

«L’obiettivo è fare in modo che l’osservatore che sta di fronte all’opera riconosca qualcosa di reale.»

F.I.: Prima mi hai parlato dell’utilizzo degli scarti, o di cose che si usano nella vita di tutti i giorni, come scontrini e imballaggi. Per il resto invece, che materiali utilizzi? Con cosa disegni?

M.P.: I materiali sono la cosa più interessante. Cerco di utilizzare le stesse cose che si usano nella città, nella costruzione della città. Come il catrame, per esempio. Poi uso anche l’acrilico. Voglio usare materiali che hanno a che fare con l’architettura e con la fabbricazione dello spazio, sono i materiali che parlano del mondo urbano e dei suoi componenti.

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«Mi piace pensare che i luoghi, che sono delle cose stabili, possano essere spostate e possano farlo attraverso il nostro corpo, attraverso il loro ricordo presente dentro di noi.»

F.I.: Nel tuo studio ho visto anche la maquette di un labirinto. È qualcosa di diverso, pare, rispetto al resto di cui mi hai parlato.

M.P.: Riguarda l’ultima esposizione a Parigi, “Afriques Capitales”, è un modellino in scala del progetto che ho esposto. Il labirinto è sospeso, non tocca il pavimento e rimane a 10 cm da terra. Le persone che attraversano il labirinto possono incontrarsi, ma non percorrerlo insieme: non c’è abbastanza spazio nei corridoi. Questo per me descrive la solitudine che si può percepire nel mondo urbano. Il labirinto per me è il contrario di una architettura: l’oggetto architettonico è qualcosa di fisico e presente, immobile, che non si può spostare e obbliga l’uomo a girarci intorno per andare dall’altra parte, come un ostacolo, mentre il mio labirinto può essere attraversato perché le pareti si spostano. La percezione cambia una volta che ci sei dentro, dall’esterno sembra solido e opaco, ma dall’interno percepisci la sua trasparenza, quindi alla fine darà l’impressione di essere leggero e fantasmatico. È una cosa che è presente ma non c’è.

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