Trascrivendo una registrazione si è spesso succubi dei casuali ritmi dello svolgimento dei fatti, saliscendi tra domande apparentemente banali e illuminazioni che li per li, sul momento e nel luogo, creano un cooperato, avvincente scambio di opinioni. In questo caso abbiamo anche avuto in un certo senso una “falsa partenza” che chiamerei più “assestamento”, questo giustifica il ritmo crescente dell’umore nel testo e il fatto che David indossasse degli occhiali da sole all’inizio e poi no. Questo testo è quindi un panno bagnato, steso al sole e poi non stirato. Secco, autentico un po’ stropicciato.
J.S: Tutto ciò che vedo qui ha qualcosa in comune ma si tratta di opere realizzate con tecniche molto diverse tra loro. Usi la pittura, la serigrafia, fai sculture...
D.R: Sì, vedi... quando lavoro cerco di essere costantemente curioso e aperto, e di evitare di rimanere fermo su un determinato stile, cerco di essere molto libero. Penso che questo sia un grande privilegio.
J.S: Pensi che il tuo lavoro sia cambiato molto nel corso degli anni? Di alcune tue sculture non riesco a prima vista a riconoscere il materiale che hai utilizzato, spesso il colore le camuffa, le riveste letteralmente, potrebbero essere pesantissime o leggerissime, è difficile saperlo. Lavori anche con i metalli?
D.R: Sì, il mio lavoro è in costante cambiamento e io cerco di essere più aperto possibile quando mi viene un’idea. Ogni riflessione per me è benvenuta. Come vedi, ci sono molte cose qui nel mio studio, questo perché faccio un sacco di bozzetti. Quest’opera con le noci di cocco per esempio è uno di quelli, si chiama “Gondola”. Tutti questi bozzetti sono idee che ho avuto ma che non sempre mi piacciono, a volte sì, e li porto avanti. Questa è una scultura che ho realizzato tempo fa. È una saldatura con la quale ho cercato di imitare i bronzi di Giacometti. Ho pensato che fosse interessante creare una superficie, una texture, utilizzando una tecnica che di solito non è usata per creare un effetto estetico ma per unire materiali. Quello che è interessante è che in questo caso la superficie saldata si finge bronzo, il bronzo di Giacometti. Ho iniziato a lavorare all’opera in questo modo, poi mi sono concentrato di più sul disegnare delle linee nello spazio.
J.S: Quanti anni hai?
D.R: 44 (sorride)
J.S: Sembri più giovane! Quando hai capito che la tua carriera sarebbe stata quella esclusivamente dell'artista, quando hai capito esattamente che saresti diventato quello che sei? Hai fatto altri lavori prima di fare l'artista?
D.R: Ho sempre desiderato fare quello che faccio adesso. Quando avevo 18 o 19 anni mi sono trasferito in Olanda per studiare fotografia. Ero giovane e ovviamente volevo provare esperienze nuove, frequentavo un sacco di clubs... poi ho fatto amicizia con un ragazzo e insieme abbiamo deciso di mettere su una band e fare musica. Dopo quell’esperienza ho cominciato a fare arte.
J.S: Quindi fai musica... di che tipo?
D.R.: Elettronica, disco music...
J.S: Perciò anche se vedo diverse chitarre, tastiere e microfoni in giro, non suoni nessuno strumento?
D.R: Posso fingere di essere in grado di suonarli tutti. Fingere significa che potrei farti credere che sono capace di farlo! In verità, quando faccio musica compongo principalmente sul computer, oppure suono qualcosa con gli strumenti, lo campiono e lo riedito al computer.
J.S: Come lavori di solito? Metti mano ai materiali sperimentando a livello fisico o ne fai prima uno studio digitale? Fai molta ricerca?
D.R: Potrebbe sembrarti patetico detto così ma io lavoro sempre, tutto quello che ho intorno nella quotidianità può essere uno spunto per lavorare... sono molto fisico in relazione al lavoro e ai materiali e scelgo sempre i colori sulla base di una semplice intuizione personale.
J.S: A cosa stai lavorando in questo momento?
D.R: Alcune storie nascono invertendo le normali sequenze. Guarda quest’uomo ad esempio, normalmente lo vedrai così, sdraiato, ma se taglio a metà l'immagine e inverto la normale sequenza dei frames avrò una nuova storia densa di significato, più interessante della precedente. Al momento sto lavorando sulla continuità, delle cose e delle immagini. Un'immagine bidimensionale può diventare un oggetto intorno al quale orbitare, questo non tanto per offrire un punto di vista scultoreo a 360 gradi sull'oggetto, quanto per raccontare una storia che non ha né inizio né fine.
Andiamo di sotto, voglio farti vedere una cosa!
Ci vuole molto lavoro per mettere insieme quest’opera. Solitamente preparo molte prove grafiche e le stampo per testarle. Voglio essere sicuro del risultato finale e accertarmi di non mandare tutto a rotoli. Guarda qui... vedi, questo lavoro è composto da due superfici, una tela e una griglia di corde applicata sopra che è come una seconda tela. Con la griglia l’effetto cambia perchè la colorazione nera della corda modifica i colori sottostanti. E’ come se i colori esprimessero intenzioni diverse. Per questo per me è molto importante preparare bozze prima di iniziare, altrimenti sarebbe difficile sapere in anticipo qual è la resa migliore per la composizione. Ecco perché per questa serie ho iniziato a lavorare sul computer, per individuare tutti i possibili contrasti che avrei potuto ottenere senza perdere troppo tempo. Per quanto riguarda i dipinti, spesso uso gli acrilici; qualche volta il processo è molto veloce, altre più lento... ma io preferisco quando è veloce.
J.S: E questa opera con le gabbie?
D.R: Questa è la prima opera di una serie chiamata "Mid-century Duplex, House for a Chicken”. Ruota intorno a quello che io chiamo “Consensus Architecture”, ovvero quel che normalmente viene inteso come “il modo corretto di fare architettura”; come per l’architettura Mid-Century californiana che rappresenta il modello standard da replicare per costruire nuove case. Penso che sia molto ironico giocare con questo concetto per il fatto che tutte le case finiscono per essere identiche. Questo è il primo modello che ho realizzato, poi ho iniziato a sperimentare l’uso di pezzi di design iconici come quelli che apparivano nei vecchi numeri di Vogue Casa, AD, ecc.. Volevo utilizzare diversi pezzi di arredamento e creare una relazione con il tipo di immagini che comparivano in quelle riviste. In questo caso ho applicato l’idea ad un carrello della spesa combinandolo appunto con un pezzo iconico di design. L’oggetto carrello in sé rappresenta il “raccoglitore” dei beni di un senzatetto ma allo stesso tempo da alla composizione dell’opera un valore iconico. Questi due pezzi, che idealmente sono molto diversi tra loro, si assomigliano a livello di forma! Trovo la loro contrapposizione come icone molto interessante, soprattutto il fatto che insieme evochino l’architettura Mid-Century californiana, fatta di case strutturalmente aperte che allo stesso tempo sembrano gabbie o prigioni! Ti faccio vedere una foto sul mio cellulare... lo schermo è rotto ma quello che vedi è un buon esempio di ciò di cui sto parlando.
J.S: Vedo che usi molto Instagram, qual è la tua relazione con i social networks?
D.R: Penso che la possibilità di avere accesso alle informazioni che vuoi quando vuoi sia molto confortevole. Instagram è il nuovo Google Images. Se mi interessa vedere qualcosa in particolare, vado su Instagram e trovo tutto quel che cerco.
"Mi piacciono i film di una volta perché ci trovo molta più libertà. Succedono sempre cose inverosimili ma che in realtà si inseriscono perfettamente nella storia".
"Alcune storie nascono invertendo le normali sequenze"...
J.S: Usi mai immagini trovate sui social networks per i tuoi collages?
D.R: No, per i miei collages uso solo materiale stampato da me. Anche se... guarda questo bozzetto: questa “A” che vedi è il logo di un photo stock. Lo trovo divertente: quel che fanno i photo stocks è rivendicare le immagini come proprie, le distruggono mettendoci sopra questo logo in modo che tu non possa realmente averle se non pagandole. Guarda questa fotografia di un vecchio dipinto per esempio, non capisco perché dovrebbero avere il diritto di appropriarsene, capisci cosa intendo? Mi piace usare il logo come una sorta di strato, di punto di partenza per dire: “vuoi distruggere questa immagine? Ok, allora prenderò la tua negatività e la trasformerò in qualcosa di positivo.”. È un tentativo di vedere il logo, che in apparenza deturpa l’immagine, come un vantaggio, come una possibilità di dare un nuovo significato all’immagine stessa.
J.S: Parti spesso da errori e fallimenti come materiale per il tuo lavoro?
D.R: Imparo molto sia dagli errori che da cose che semplicemente succedono e mi fanno pensare “ah, fico questo”, quando non avevo idea che potesse esserlo. Per questo motivo cerco di essere più aperto possibile e pensare che gli errori possono trasformarsi in realtà in nuovi punti d’osservazione. In questo caso però, come ti ho mostrato prima con le bird houses, l’opera ruota piuttosto intorno al concetto di proprietà, a idee tipo: “questo appartiene a me, quello appartiene a te; io ho più di te; tu non puoi venire in casa mia perché questa terra appartiene a me...”. L’opera è la rappresentazione di quanto sia stupido che qualcuno possa comprare un pezzo di terra che in realtà appartiene a tutti. Per me questo lavoro parla di un esempio di appropriazione. “Questo è mio e devi pagare per guardarlo”. E io ti rispondo: ”vaffanculo!”.
J.S: Ci sono un sacco di piccoli strambi microhabitat qui dentro. Penso che dovrei passarci almeno tre giorni per raccontare tutto quello che vedo.
D.R: sì è vero! Guarda questa casetta, la trovo molto carina. Ne ho una serie ma guardando attraverso le finestre di questa si capisce che ci sono delle donne nude dentro la stanza, anche se dall’esterno è difficile vederle bene, ma loro ci vedono. Si possono accendere anche le lucine all’interno, ma l’immagine dei corpi rimane sfocata. E’ un regalo di amici, hanno pensato a me perchè la sequenza delle casette collegate dal filo elettrico ricorda un po’ il mio trenino giocattolo.
J.S: Quindi sei un collezionista di oggetti...
D.R: Purtroppo sì... (ride)
J.S: E di opere d’arte... Vedo un sacco di dipinti di altri artisti, sono tutti regali o li hai acquistati tu?
D.R.: Sì, amo collezionare opere di altri artisti. Il mio preferito è Andreas Dobler. Questi invece sono di Kevin Aeschbacher, Tomi Ungerer e Dana Schutz.
J.S: Vedo anche che collezioni diversi tipi di libri. Qual è il tuo libro preferito? Quello a cui pensi quando ti serve ispirazione...
D.R: Ho un sacco di libri preferiti ma colleziono di tutto. Per esempio ho una grande raccolta di riviste erotiche degli anni ’60. Mi piacciono perché sono “brutte”, fatte male, si capisce davvero che sono fatte a mano, che gli autori non sono professionisti. Mi piacciono proprio per questo, e poi hanno dei bellissimi colori. La grafica è così stramba! Ci penso spesso, le foto venivano scattate durante i fine settimana, in capannoni di fabbriche dove nessuno poteva accedere e sapere.
J.S: Bello! Sembra che alcuni di questi libri prendano ispirazione dai vecchi “fotoromanzi” degli anni ’70... hai presente? I giornali con fotografie e tableau vivant. In Italia quel tipo di pubblicazione ha fatto nascere delle vere e proprie dive.
D.R: Sì, in un certo senso è divertente perché è “naif”, non è come guardare davvero qualcosa di “sporco”. E’ questo che mi piace, il fatto che non abbiano senso. Non seguono alcun tipo di regola. Le fotografie sono posizionate a caso all’interno della pagina. Guarda questa immagine per esempio: è chiaro che volessero creare una gabbia dall’aria promiscua, ma probabilmente non sono riusciti a farlo, quindi hanno deciso di disegnare a mano le sbarre! Ci sono anche un sacco di bei collage e colori che mi piacciono molto.
J.S: E dove hai trovato queste riviste? Voglio dire... hai uno spacciatore?
D.R: Sì ahah, una sorta di spacciatore! È questo ragazzo che vende fumetti. Sa che amo questo genere di cose e un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: “Vieni qui, devo farti vedere una roba che ti piacerà di sicuro.” Erano queste vecchie riviste erotiche! Lui e’ di Zurigo ma le riviste vengono dalla Svezia o dalla Finlandia.
J.S: Hai detto che ti piace chiacchierare con le persone e avere scambi d’opinione interessanti. Pensi che sia più importante per te parlare con chi è dentro il mondo dell’arte o preferisci confrontarti con punti di vista esterni?
D.R: È sempre interessante parlare con persone che non lavorano nell’arte, sia con i bambini, a cui posso mostrare la bellezza dell’arte oppure insegnare a guardare un’opera con uno sguardo diverso, sia con gli adulti che hanno altre passioni rispetto alle mie. Per esempio, se parlassi con qualcuno che è appassionato di moto, potrebbe insegnarmi come riconoscere diversi modelli in base al suono che emettono. Ma se quell’appassionato di moto parlasse con un altro appassionato di moto, potrebbero entrare direttamente in una conversazione più complessa, senza bisogno di spiegazioni basilari. Quando parli con persone che si occupano d’arte non occorre spiegare tutto. In generale mi piace parlare di molte cose diverse, sono semplicemente interessato ai contenuti e amo discutere con chi ha una visione o una logica di pensiero strana, diversa dalla mia, o con chi invece ha una passione per qualcosa e quindi può insegnarmi cose che non conosco e che non avrei mai scoperto altrimenti. È ottimo perché mi da nuovi input.
J.S: Dopo aver visto la tua collezione di libri sarei curiosa di sapere qual è il cinema che ti ispira di più, quali sono le scene che meglio ricordi e che hai trovato geniali e di quali registi.
D.R: Mi piacciono il cinema italiano, quello americano e quello svizzero... la lista dei miei film preferiti ha tipo cento titoli. Quelli che amo di più però sono i film degli anni 60’ e 70’. Erano così... liberi e spesso privi di logica. Per esempio mi piacciono i film di Pasolini. Quando dico privi di logica penso ai film di oggi, che hanno una sequenza di scene sempre piuttosto lineare, normale diciamo. Vediamo il protagonista che entra attraverso la porta, persone che parlano, poi loro in macchina, poi c’è una sparatoria..è sempre così logico, prevedibile. Mi piacciono i film di una volta perché ci trovo molta più libertà. Succedono sempre cose inverosimili ma che in realtà si inseriscono perfettamente nella storia. Ti davano una visione diversa della realtà. I film di oggi mostrano scenari futuristici, persone che volano, ecc. Eppure il modo in cui si svolge la sequenza è sempre piuttosto banale. A me invece piace quando le cose capitano in modo contorto, dandoti un’esperienza diversa di visione e di comprensione. Per guardare i film di una volta devi per forza andare al cinema, devi metterti a sedere ed entrare nel linguaggio e nel ritmo di ciò che stai vedendo. Non è un tipo di fruizione facile e veloce.
Quello che mi piace di Tarkovsky, per esempio, è che è molto filosofico. Nei suoi film c’è sempre una sovrapposizione di livelli diversi, il reale e l’irreale. Stalker è il mio preferito: per raggiungere la stanza dove tutti i desideri si avverano, i protagonisti devono percorrere uno slalom, invece di camminare su un percorso dritto, eppure tutti lo accettano ugualmente come realtà. Ci credono e per questo lo percepiscono come reale. Mi piace il fatto che i personaggi accettino cose che non sono realistiche. Il cinema di Tarkovsky è anche pieno di effetti visivi grandiosi.
Ti ricordi la fine di Stalker? Quando il padre si carica in braccio la figlia che non può più camminare. C’è un frame in cui si vede solo il volto della figlia, dando l’impressione che sia lei a camminare. Poi l’inquadratura si amplia e scopri invece che è il padre a portarla. Ma quest’idea di far sembrare che sia lei a muoversi, conferita invece dal movimento del padre che la sta portando, è un effetto davvero straordinario per me.
J.S: In un certo senso si può dire che nel film l’impossibile risulta possibile, se ci si crede. E a proposito di credo, cos’è per te un momento religioso?
D.R: La religione è fede e potere. Per me non c’è gran differenza tra il comunismo, la religione e il fascismo... si tratta solo di accettare il fatto che tu non sia un individuo ma parte di un gruppo, e la convinzione di essere parte di qualcosa di più grande di te trasmette potere.
Può essere qualcosa di positivo e negativo allo stesso tempo. In generale però non amo le persone che seguono una dottrina, nonostante sia in grado di comprendere il potere della religione e abbia vissuto io stesso dei momenti che potrei definire in qualche modo religiosi. Momenti in cui mi sono sentito molto piccolo e ho avuto la sensazione di essere parte del mondo. Trovo che ci sia molta dignità in momenti come questi. Dignità nell’atto di accettare di essere una piccola parte ed essere tesi verso tutto ciò che ci sta intorno. Questo per me è un momento religioso.