J.S: Ciao Domenico, dopo molto tempo ci rivediamo in uno spazio che non è quello accademico. Due chiacchiere al telefono e mi dai l’ok per visitare il tuo studio che è anche la tua casa. Che cos’era questo spazio originariamente? Da quanto vivi qui?
D.L: Ciao Jessica, benvenuta. Questo spazio dove vivo e lavoro nasce come magazzino ed in seguito è stato per anni un laboratorio per le analisi del sangue. Non ci ho vissuto moltissimo anche se ce l’ho dal 2010. Inizialmente ci lavoravo e basta e nel frattempo lo trasformavo pian piano in un luogo abitabile. Per diversi anni, poi, ho vissuto all’estero e sono tornato a Milano in questo spazio all’inizio di quest’anno. Complessivamente io ci avrò vissuto due o tre anni.
J.S: Convivi a tutti gli effetti con le tue opere. Per un artista che riflette sul riuso degli oggetti di scarto e sul ricontestualizzare gesti del quotidiano, questa convivenza è un limite o un nuovo punto di partenza?
D.L: Non saprei se essere circondati dalle proprie opere sia un limite o meno, per me è una cosa spontanea. Stavo pensando a quando vivevo a Francoforte ed avevo casa e studio separati, anche se casa mia era molto piccola mi circondavo comunque di oggetti che andavano ben oltre l’arredamento... Cose che mettevo in giro e volevo guardare, tra cui pezzi di formaggio ammuffiti, torri di gusci d’uovo oltre a bozzetti di lavori che stavo facendo in studio. Per me la dimensione casa-studio nello stesso luogo è la migliore, altri invece hanno la precisa esigenza di dividere le due cose.
«Gli oggetti che utilizzo per le mie opere sono come chiamati a testimoniare, a performare, ma rimangono loro stessi. I miei lavori non sono narrativi, vorrei che fossero come dei dati di fatto spiegabili da diversi punti di vista.»
«A me personalmente piace trovare soluzioni in modo da non dover intaccare la natura di quei lavori che non sono fatti per essere eterni.»
J.S: A volte il tuo lavoro si scontra col bisogno del mercato dell’arte di trattare opere che possano durare nel tempo invariate. Il principio “costruttivo” e il pensiero da cui nascono però non scende a compromessi o pensi che nel tempo si modificherà per adattarsi alla richiesta del collezionismo?
Pensando ad alcuni tuoi lavori, come “dancer” ad esempio, dove lo scarto diventa monumento fondamentale per testimoniare un aspetto del passato, una certa “futilità” di alcuni mezzi di comunicazione e insieme la loro importanza, come cambierebbe il significato intrinseco dell’opera se si adattasse a preservarsi immutata nel tempo?
D.L: Effettivamente, per un artista che comincia a lavorare professionalmente, quello di dover produrre opere eterne e stabili è un problema ricorrente, perché è difficile che qualcuno si prenda la briga di pensare a come poter conservare o restaurare le opere di un artista giovane. A me personalmente piace trovare soluzioni in modo da non dover intaccare la natura di quei lavori che non sono fatti per essere eterni, ad esempio i miei limoni da tennis. Il lavoro originario è un vero limone intagliato, è una scultura, ma il modo in cui questo lavoro circola, viene visto e venduto, è la fotografia.
Per quanto riguarda i “dancer” invece è un problema puramente pratico. Il “dancer” è una scultura che è stata pensata per mutare, cambia forma ogni volta che viene spostata, il materiale di cui è fatta può essere facilmente sostituito lasciando invariata l’autenticità dell’opera. Se fossi un artista famoso il problema verrebbe gestito tranquillamente come quando Urs Fiscer fa le sculture di cera che ritraggono i suoi collezionisti e queste sono fatte per essere usate come candele. Chi compra l’opera la può utilizzare e quando è consumata del tutto ne viene fornita una nuova. Questo per dire che si trovano facilmente le soluzioni per vendere o conservare determinate tipologie di opere laddove c’è interesse a farlo.
In ogni caso penso che, quando è l’artista a piegarsi a determinate dinamiche commerciali e non il contrario, sia la morte di qualcosa.
«In ogni caso penso che quando è l’artista a piegarsi a determinate dinamiche commerciali e non il contrario sia la morte di qualcosa.»
J.S: Usi materiali che le persone dimenticano e li tramuti in forme da ricordare. Questa domanda suona forse provocatoria ma è per questa caratteristica di riqualificazione e insieme di riscatto che ti interessano gli artisti emergenti della nuova scena trap italiana?
D.L: Vorrei innanzitutto chiarire un punto, ricorre spesso nelle tue domande ma anche in quelle di molte altre persone questo concetto del riuso, riciclo, l’oggetto dimenticato, il materiale di scarto ecc... legato al mio lavoro. Per quanto riguarda la mia produzione artistica, anche se mi rendo conto che possa trasparire, non ho il minimo interesse per questi aspetti (faccio fatica a fare la raccolta differenziata, figurati..), per quanto riguarda il riuso in effetti un'opera d’arte non è che poi la usi, perciò come artista mi viene difficile rispecchiarmi in queste pratiche.
Difficilmente si potrebbe parlare dei ready-made di Duchamp, ad esempio, in termini di riuso, riciclo, riqualificazione ecc...
Così gli oggetti che utilizzo per le mie opere sono come chiamati a testimoniare, a performare, ma rimangono loro stessi. I miei lavori non sono narrativi, vorrei che fossero come dei dati di fatto spiegabili da diversi punti di vista.
Sempre riguardo i “dancer” che forse è il lavoro più emblematico sotto questo aspetto, il discorso non è "guarda che cose simpatiche si possono fare con questo materiale invece che buttarlo"; è piuttosto come se una persona che conosci bene facesse davanti a te qualcosa di incredibile che non gli hai mai visto fare.
Invece per quanto riguarda la nuova scena trap (sorrido), ho iniziato ad appassionarmi perché alcuni di questi ragazzi che sono della generazione dopo la mia, vengono dalla stessa zona dove abito io, proprio le stesse vie. Una zona popolare, caratterizzata da nulla se non dalla forte presenza di immigrati e zingari.
Ci sarebbe da parlare a lungo di questa cosa perché ci sono moltissimi lati interessanti di questo nuovo movimento musicale. In sostanza ho visto in questa tendenza la spinta propulsiva di una nuova generazione che sente la necessità di affermarsi autonomamente per quello che è, facendo trasparire valori che aiutano a decodificare nuovi aspetti del contemporaneo.
«Riguardo i “dancer”, che forse è il lavoro più emblematico sotto questo aspetto, il discorso non è "guarda che cose simpatiche si possono fare con questo materiale invece che buttarlo"; è piuttosto come se una persona che conosci bene facesse davanti a te qualcosa di incredibile che non gli hai mai visto fare.»
J.S: Viaggi molto, hai frequentato per 2 anni l’Accademia di Offembach (HfG) in Germania e hai avuto la possibilità di vedere da vicino come funziona il sistema dell’arte ai livelli più alti facendo da assistente a uno degli artisti italiani con base all’estero, più importanti del momento: Loris Cecchini. Come ha influenzato la tua crescita e come ha modificato le tue aspettative per il futuro?
D.L: Sicuramente la scelta di trascorrere un periodo all’estero è stata fondamentale per la mia formazione. Non tanto per quello che ho imparato li ma soprattutto per una questione di presa di coscienza. L’Accademia in Germania è un’istituzione completamente diversa da quella italiana, sarebbe facile dire che è molto meglio in quanto a Francoforte mi è stato messo a disposizione uno studio e svariati mezzi e materiali per poter realizzare i miei progetti, ma il discorso è più complesso di così e tutto sommato ogni artista si crea un percorso in base alle proprie esigenze. Il passo importante è stato muoversi, il resto è arrivato di conseguenza. La collaborazione con Loris Cecchini a Berlino è stata un’altra grossa opportunità arrivata in un momento della mia formazione in cui ho potuto cogliere davvero molto. È stato un dialogo costante in un contesto di lavoro concreto che sta continuando nel tempo. Gli devo molto.
J.S: Tante persone hanno vissuto in questo spazio dove adesso vivi e lavori tu, hanno lasciato tracce, oggetti, disegni e fotografie. È come se questo spazio portasse con se le storie degli altri e in un certo modo tu stesso hai preservato l’ambiente come è stato lasciato, come se anche tu in qualche modo stessi collezionando oggetti d’altri.
D.L: Durante la mia permanenza all’estero affittavo lo spazio ad un amico che nel corso degli anni ci ha vissuto con diverse persone. Moltissima gente è passata di qui e sono contento di questo perché è un luogo che è stato davvero sfruttato a pieno, un punto di incontro e di partenza di svariati progetti, artistici e non, quando si dice: "se queste mura potessero parlare"...
L’ambiente è in continuo cambiamento, quando sono tornato a viverci dopo tre anni ho sentito l’esigenza di sbarazzarmi di molte cose. Il mio sogno sarebbe avere un grande magazzino per stipare tutto quello che mi interessa, nel frattempo cerco di fare un po' di selezione. Devo ammettere che non posso fare a meno di circondarmi di oggetti, è un meccanismo quasi inconscio, mi ci ritrovo in mezzo, quasi nessuno di questi è li per funzioni pratiche, sono li per testimoniare.
«Devo ammettere che non posso fare a meno di circondarmi di oggetti, è un meccanismo quasi inconscio, mi ci ritrovo in mezzo, quasi nessuno di questi è li per funzioni pratiche, sono li per testimoniare.»
J.S: E gli strumenti musicali? Ce ne sono molti, qual è la loro storia? Li suoni tutti? Ci suoni qualcosa?
D.L: La musica è un'altra faccia della mia vita, alcune persone mi conoscono solo come musicista anche se non lo sono davvero. Suono da moltissimi anni ma non sono mai riuscito ad approfondire abbastanza perché diventasse la mia attività principale. Sono contento di averlo come hobby e spesso è stata anche una fonte di guadagno oltre che un passe-partout per un’infinità di situazioni e la conoscenza di moltissime persone. Amo il jazz, è un linguaggio di cui non ho la completa padronanza ma che mi arriva forte e chiaro quando lo ascolto. Qui in studio, oltre alle mie chitarre, ho un contrabbasso e un vecchio pianoforte tedesco ereditato da mio nonno. Questi ultimi non li suono quasi mai ma ci tengo che ci siano e spesso vengono suonati da altri.
Non posso suonare qui ma condivido volentieri l’album che ho nello stereo in questo momento: