Ci salutiamo per la prima volta, sulla porta. Cammino un po’ guardandomi intorno. Sulla parete del salotto si legge il messaggio “I don’t want to live anymore”, ogni parola è scritta a penna in maiuscolo su un foglio e occupa uno spazio. Ad un certo punto però solo la parola “want” rimane appesa mentre tutte le altre disegnano uno schema sul pavimento. Ti muovi tra una parola e l’altra con i gesti, le misure, i suoni fruscianti dei movimenti e la nostra immaginazione. Anche per te questa casa, progettata da Lingeri tra gli anni ’30 e ’40 per ospitare artisti, non è familiare. Sulla troppo profonda ricerca sulle sofferenze umane mi dice qualcosa il libro sul tuo letto: “Underground. Ovvero un eroe del nostro tempo” di Vladimir Makanin.
J.S: Quali sono i desideri di un “eroe del nostro tempo” secondo Jan Deboom? 🙂
J.D: Beh… Far parte di progetti disastrosi. Intendo dire che un eroe dovrebbe riuscire a fare dei passi indietro, senza aver paura di perdere lavoro, fama e denaro. Non vuol dire che mi piace stare male, ma voglio credere nell’idea di creare e ricreare la propria vita di volta in volta. Ogni persona dovrebbe essere capace di vivere in ricchezza, in povertà, con un rifugio sicuro o senza una casa. Nonostante l’eredità che abbiamo, dovremmo avere l'opportunità di creare in qualche modo una realtà nostra – all’interno della realtà del mondo -, con standard diversi, obiettivi diversi, sensazioni diverse.
"Da performer impari a dare e mostrare tutto. Da autore mostri ancora di più"...
J.S: Il tuo lavoro qui si svolge sempre in un luogo confinato in un certo senso. La casa che ti ospita ha dei confini, l’Isola stessa ha dei confini che ti costringono a rimanere qui talvolta... anche le ore del giorno sono dei confini. Come danzatore e performer quanto è importante il contatto con uno spazio come l’Isola Comacina? Dormire fuori ti aiuta?
J.D: Questo luogo mi spinge a riflettere sulle costrizioni e sulle situazioni in cui ci troviamo. C’è molto vuoto e non ho niente che mi distragga o mi intrattenga. La prima cosa che ho fatto quando sono arrivato qui è stata capire, sentire, analizzare e scrivere dei limiti/delle restrizioni anche per farne uso e giocarci. Ricordo di essermi infuriato al mio arrivo perché "l’artista” viene mostrato ai turisti in visita come se fosse una scimmia chiusa in gabbia. C’è però da dire che ho ricavato anche del materiale interessante da questa esperienza, dato che ho imparato a ritrarre in nuovi modi i concetti di vuoto e noia, che penso siano dei punti fondamentali nella nostra vita.
J.S: Al centro della società ci siamo noi, e per noi spesso la società è il centro. Facendo riferimento ad uno spazio non ben definito, fisico o impalpabile, si potrebbe dire che lavori sui concetti di distanza e isolamento di un individuo rispetto alla società ma cercando di mostrarne il lato positivo. Come, con tutto il proprio carico di sofferenze, diversità, linguaggi, valori si possa spostare il proprio centro, da un punto comune a uno personale.
I tuoi personaggi non sono in fuga ma alla ricerca di un proprio centro. Con quali forze si scontrano?
J.D: Come immagino tu abbia capito finora, il fallimento occupa una posizione importante nel mio lavoro e nella mia vita. I miei personaggi falliscono nel fare le cose più semplici. O meglio, mettono sempre in discussione i loro ruoli e si rifiutano di comportarsi nel modo in cui ci si aspetta che facciano. Falliscono perché non vogliono scendere a compromessi. L’indebolimento dell’autorità li fa soffrire a causa di un esilio perpetuo, poiché conducono delle esistenze marginali… Ma in tutta la loro stupidità e semplicità, risultano anche brillanti.
"Un eroe dovrebbe riuscire a fare dei passi indietro, senza aver paura di perdere lavoro, fama e denaro. "
"Il fallimento occupa una posizione importante nel mio lavoro e nella mia vita. I miei personaggi falliscono nel fare le cose più semplici... Falliscono perché non vogliono scendere a compromessi."
J.S: Dagli anni ’70 la performance ha lasciato al passato i tecnicismi e accolto l’improvvisazione, la gestualità del quotidiano. L’illusione ha lasciato spazio alle verità umane, emozionali e crude. Questo ha dato modo a molti ballerini di entrare a far parte del mondo della danza contemporanea anche in età più avanzata rispetto al comune percorso artistico di un danzatore di classica ad esempio. Anche per te è stato così; quale consapevolezza ti ha portato a decidere di essere quello che sei oggi?
J.D: La tristezza, la repressione e la disperazione. E l’ambizione di cambiare tutte queste cose.
J.S: Prima lavoravi in una compagnia ora sei l’unico soggetto performante. Pensi che questo annulli di più le distanze col pubblico?
J.D: Si tratta di un ulteriore passo in avanti. Nel senso che offro al pubblico la possibilità di fare un passo in più verso di me. Da performer impari a dare e mostrare tutto. Da autore mostri ancora di più: i tuoi problemi, la tua intelligenza e la tua stupidità, i tuoi dubbi e le tue potenzialità.
"C’è molto vuoto e non ho niente che mi distragga o mi intrattenga. La prima cosa che ho fatto quando sono arrivato qui è stata capire, sentire, analizzare e scrivere dei limiti/delle restrizioni anche per farne uso e giocarci."
J.S: So che componi anche i tuoi brani. Che tipo di suono racconta meglio la tua arte? Interiore o esterno?
J.D: Amo il suono. Lo uso in maniera molto intuitiva come strumento comunicativo. Mi concedo di perdermi in esso al punto da non ricordare o sapere più cosa si trova dentro e fuori di me.