

Andare a trovare Yuval per quattro chiacchiere è un’esperienza che inizia con un caffè e termina con un abbraccio. Pochissime persone sono entrate nel suo studio e ci sentiamo sinceramente onorate.
Entriamo in casa, un appartamento caldo e familiare in un palazzo di ringhiera nel centro di Milano; qui moltissime cose portano il nome di Yuval, a partire dal caffè sopracitato, che arriva alla nostra tazza solo dopo aver compiuto un percorso pensato ad arte. “Questo è il caffè Yuval, assaggiate” e ci spiega il metodo di preparazione.
JS: Si apre la porta del tuo studio e saltano all’occhio subito 2 cose: una scrivania e una libreria affollate di oggetti di ogni genere, promemoria, fotografie e partiture... e le chitarre. Ce n’è una in particolare che con questa luce capeggia, è metallica e specchiante e ci incuriosisce parecchio. Dove l’hai fatta costruire? Che suono ha?
YA: Questa è la mia Noah (costruita da Noah Guitars), una chitarra in alluminio fatta apposta per me. L’ho utilizzata anche nel progetto realizzato in collaborazione con NASA ed ESA. I liutai che l’hanno realizzata sono di Milano, costruiscono strumenti come si costruiscono le spade per i Samurai. Questa per esempio è la chitarra Yuval! Poi c’è la chitarra che hanno costruito per Lou Reed, il basso di Sting, quello di Saturnino... siamo una comunità molto piccola di persone ossessionate dal suono.
Vi suono qualcosa!
«Siamo una comunità molto piccola di persone ossessionate dal suono.»




JS: Volevamo sapere qualcosa di te, come hai iniziato? Da quanto tempo vivi in Italia? È arrivata prima la musica o l’arte visiva?
YA: È arrivata prima la musica. Sono nato chitarrista, in realtà. A Gerusalemme, da dove provengo, ho avuto fin da giovanissimo varie esperienze di teatro e di poesia ma, sì nasco come chitarrista e inizialmente facevo parte del Jerusalem Institute of Contemporary Music (JICM). Dico inizialmente perché il percorso è stato lungo e subito dopo sono passato alla musica classica contemporanea che mi ha dato la possibilità di collaborare con vari compositori.
Sono venuto in Italia, nel biellese, a 26 anni. Ero un solista di chitarrista classica, ho frequentato la scuola di Angelo Gilardino, direttore della fondazione Segovia, uno dei più grandi maestri viventi della chitarra classica e insieme a lui c’era il suo braccio destro, Luigi Biscaldi, un altro grande maestro. Facevo parte di una classe molto piccola di solisti scelti e vivevo come un’eremita, suonando circa 10 ore al giorno. È stato un periodo molto intenso di cui ho dei bei ricordi: il territorio, il bellissimo Palazzo La Marmora...
Di quel periodo mi è rimasto questo “chiodo fisso” per il quale ho scritto un brano per chitarra preparata che si chiama בדידות†(bdidut) e vuol dire “solitudine”. Per eseguirlo mi serve anche una graffetta:
«Di quel periodo mi è rimasto questo “chiodo fisso” per il quale ho scritto un brano per chitarra preparata che si chiama בדידות†(bdidut) e vuol dire “solitudine”.»






Questa chitarra si chiama Bronzo. Il nome deriva dalla poesia di Federico García Lorca, "Romanza della luna, luna". Una drammatica storia gitana, nella cui viene detto [...]
«Per l’uliveto venivano, bronzo e sogno, i gitani. Le teste alzate e gli occhi socchiusi[...]»
La mia chitarra precedente era Sogno, poi si è rotta ed è arrivata Bronzo.


JS: Tutti questi oggetti che vedo raccontano una storia e compongono un microcosmo, tutta la tua vita e il tuo lavoro. Ci sarebbero domande per ognuno di loro.
YA: Sì, è vero, ogni cosa qui è piena di significato. Quelle sono le campane della Terra Santa, Gerusalemme, questa una pagina di diario che ho scritto nel mese successivo al mio arrivo in Italia, tutti i miei vecchi taccuini, schizzi di partiture, di sculture sonore... poesie. Quella appesa su questa parete è la mia prima stampa su alluminio. Questi sono tutti schizzi, come il cuore di Giobbe... Questo lavoro sarà installato nel complesso delle Terme di Diocleziano, sarà come un atto di commemorazione. Per realizzare quest’opera (Cuore di Giobbe) sono partito dalle colline di machete che c’erano in Rwanda, da una riflessione sulla materia e dalla sua possibilità di trasformarsi in qualcos’altro, così un machete potrebbe trasformarsi in un uccello o in un cuore pulsante; potrebbe essere un po’ come il Cuore dell’Etna (un’altra mia scultura sonora). Questi sono schizzi per “Variazioni sul Tremore Armonico”... e così via.










JS: La tua produzione oggi è molto complessa e prolifica. Negli ultimi anni sei stato artefice di opere maestose, testimone e ambasciatore di tematiche molto importanti che riguardano il territorio, il patrimonio storico-culturale, l’immigrazione, le culture di tutto il mondo, la femminilità, i diritti civili e straordinari fenomeni scientifici.
Ogni volta hai impiegato diversi medium, oltre alla musica anche il video, la fotografia e la scultura hanno avuto un ruolo fondamentale nella composizione. Parlaci delle tue opere più importanti:
YA: Partirei da dove è iniziato tutto. È stato a Biella che ho iniziato a lavorare anche con i ballerini e con il teatro, ma soprattutto cercando di portare le tradizioni extraeuropee in Italia; una cosa naturale per me che vengo da Israele, da Gerusalemme.
Nel 2005 ho composto la mia prima opera multimediale lavorando con le culture nomadi in Kazakistan e porta il nome di “Slow Horizons”, è un’opera che ha iniziato a marcare il mio percorso d’autore, in cui coesistono tanti elementi, come oggi - la ricerca etnografica, la multimedialità, il suono e il rumore trovano il loro primo connubio genuino.
Nel 2006 ho fondato Trialogo Festival (che ho seguito per le edizioni del 2006, 2007 e 2009) un interessante incontro, nell’intero territorio italiano, fra artisti di varie culture, linguaggi e origini.
È stato anche il mio primo incontro con la Fondazione Pistoletto, dove ho avuto l’occasione di conoscere prima Paolo Naldini, il direttore, poi Michelangelo, la sua famiglia e la fantastica equipe con cui si è creata una grande amicizia.
Nel 2007 ho fatto la mia ultima performance da chitarrista classico al Toronto Performing Arts Center, questo momento ha segnato anche la fine di un certo modo di esibirmi. Qui ho preso la decisione di chiudere il capitolo dell’esecutore di opera classica per dedicarmi completamente alla mia parte più creativa, che prima era molto incentrata sull’esecuzione mentre ora è più rivolta alla creazione artistica. Mantengo ancora vicine le mie chitarre, ma suonando la mia musica e facendomi coinvolgere in alcune collaborazioni musicali scelte.
Nel 2008 ho fatto la mia prima opera icono-sonora e lì ho posto la mia firma.






JS: Ecco hai citato il termine “icono-sonora” e a questo proposito ce n’è un altro che caratterizza la tua produzione: “massa sonora”. Cosa significano esattamente questi due termini / modi? Per realizzare queste opere complesse ti occupi di tutto da solo?
YA: Il mondo icono-sonoro è diciamo il mio modo di lavorare parallelamente sul sonoro e sul visivo. Inizialmente lavoravo con videoartisti e/o montatori video ma dal 2011 ho iniziato a fare tutto da solo, le riprese, i montaggi.... tutto. Soltanto un’ultima parte di post- produzione viene affidata ad una persona specializzata.
Nel 2011 ho anche fatto la mia prima opera di massa sonora. “Mise en abîme” che significa letteralmente “messa in abisso”, un’opera dentro all’opera. Come avviene in Shakespeare in “A Midsummer Night’s Dream”: al tempo era un’opera per una folla, 34 fisarmoniche, solisti e direttori d’orchestra. La parte musicale era molto complessa ma andava a completarsi con l’esperienza della folla. Le opere di massa sonora sono opere in cui cerco di rendere il suono materia attraverso la partecipazione collettiva, lavorando con questi ensemble di non-musicisti, a volte anche centinaia di persone, che seguono partiture “user friendly”: si può definire crowd music. Le partiture non sono complesse, bensì sono fatte di elementi visivi grafici, musica scritta ed elementi di facile lettura per essere interpretabili anche da persone che non hanno nessuna esperienza in campo musicale.
Grazie a questa tecnica ogni performance è singolare e preziosa perché utilizza la voce dei partecipanti che è anche il nostro primo strumento espressivo dalla nascita in poi. Tutto ciò non ha a che fare con l’intonazione chiaramente. La seconda opera di massa sonora è arrivata nel 2012, “Garon”(in ebraico “gola”), performata in occasione della chiusura di “Dirty Corner” di Anish Kapoor, un’opera per 45 tube contrabbasso, percussioni e folla, una cosa mastodontica.
Poi è venuto Karagatan nel 2013, una composizione per 100 gong e bamboo nelle Filippine e nel 2014 ho fatto “Reka”, commissionato dal Warsaw Autumn Festival e co- prodotto dal festival MiTo a Milano, un’opera per 6 cantori tradizionali provenienti da culture molto speciali: un lama tibetano della tradizione Bon, un solista sciamano della tradizione Zulu, un cantore sardo, dei tenores di Bitti, un cantante della Mongolia, una cantante di Samarcanda, due percussioni classiche e una folla di voci (circa un centinaio di persone) e una seconda folla di circa 30 percussionisti. È stata un’esperienza molto immersiva.
Nel 2016 è stata prodotta una nuova versione a Reggio Emilia da cui è nata anche una mostra, “Postcards from Reggio Emilia”, composta da un trittico video, 15 altoparlanti e 7 lightboxes.
Nel 2012 ho composto l’opera “Unfolding Space” con NASA ed ESA, agenzia spaziale: un’installazione sonora per 120 nastri, un sistema di traduzioni sonore dell’energia elettromagnetica nello spazio e vari visuals elaborati proprio dalla NASA. Negli anni mi è capitato più volte di lavorare con scienziati. “Variazioni sul Tremore Armonico”, ad esempio è un termine scientifico che indica il canto infrasonico che nasce dall’interno del vulcano. Ho lavorato con vulcanologi, psicologi, esperti di post-traumi, etnologi.
L’opera “Noise for Syd” dedicata a Syd Barrett dei Pink Floyd, è stato il mio “andate a quel paese mondo della musica classica!”.
Negli ultimi anni ho sperimentato vari mezzi utilizzando i supporti più disparati, pensa che un’opera l’ho girata interamente con un Iphone 4s.
«Cerco di rendere il suono materia attraverso la partecipazione collettiva, lavorando con questi ensemble di non-musicisti, a volte anche centinaia di persone, che seguono partiture “user friendly”: si può definire crowd music.»




JS: “Alma Mater” è la tua installazione più grande, forse anche la più grande realizzata in Italia. Le tue opere hanno sempre delle dimensioni consistenti. Quale tra tutte ti ha coinvolto di più sentimentalmente?
YA: Tutte ma “Fuga Perpetua”, un’opera per una folla di rifugiati, affronta un tema che mi sta molto a cuore. Questo lavoro ha viaggiato molto. Grazie alla collaborazione con degli psicologi ho creato un questionario, domande alle quali i rifugiati dovevano rispondere in silenzio rivivendo il loro trauma. Il risultato è un Silent Quartet, per me molto toccante.
La co-partecipazione per me ha un valore enorme. In “Variazioni sul Tremore Armonico”, all’ingresso della mostra ho fatto appendere un colophon con 350 nomi. L’opera è il frutto di un atto di creazione di una comunità creativa che lavorava insieme. Un intero territorio ha partecipato. È stata un’opera collettiva durata quasi un anno!


JS: Quando hai a che fare con le persone del luogo come le guidi nella loro partecipazione e nella posa?
YA: Le guido con anima e corpo, se il risultato è un atto artificiale deve esserlo in modo estremo per creare empatia. È come una fiction estremamente poetica e per questo reale. un atto veritiero, sintesi del rapporto tra me e la persona coinvolta.

